di Roberta Castellarin e Paola Valentini     

Se oggi Charlie Chaplin dovesse riflettere sulla nevrosi dei nostri tempi non interpreterebbe più un operaio spaesato tra gli ingranaggi della grande industria, ma un giovane precario incerto sul presente e sul futuro. Forse proprio tanta incertezza, resa ancora più forte dal perpetuo dibattito sulla sostenibilità dei conti dell’Inps, rende particolarmente difficile oggi per i lavoratori giovani e meno giovani farsi un’idea su quando e con quale assegno potranno andare in pensione.

In realtà forse l’intero sistema previdenziale non è adeguato ai tempi moderni e andrebbe ripensato. Apre la riflessione sul tema il presidente del Mefop Mauro Marè: «È ora di dire la verità sui sistemi di welfare. Le generazioni più giovani, se non lo facciamo, non ce lo perdonerebbero, e giustamente.I sistemi di welfare tradizionali, data la demografia e il mercato del lavoro, non sono più sostenibili. Almeno come li conosciamo adesso. Si è assistito a un’inevitabile redistribuzione del rischio verso gli individui. Ci piaccia o no, non c’è altra soluzione, anche se si può dissentire sugli effetti distributivi e sociali. Al rischio economico si sono aggiunti nuovi rischi: quello di longevità e quello politico. E siamo costretti a ripensare il ruolo dello stato, ad esempio, come provider di strumenti finanziari a lungo termine».
 

L’opinione di Marè è che le riforme pensionistiche recenti abbiano molti meriti. Ma sono state introdotte con un errore sistematico: i sistemi a ripartizione devono adeguarsi alle condizioni del mercato del lavoro, alle caratteristiche reddituali e occupazionali delle persone su cui sarà effettuato il prelievo contributivo: «Gli attivi pagano per i non attivi. Una carriera regolare di 40 anni, semplicemente, non esiste più». Per questa ragione secondo Marè è il momento di fare un’operazione verità: «È ora di dire come stanno le cose. Va promossa una campagna informativa su primo e secondo pilastro, spedita la busta arancione (annunciata ma mai realizzata). Tuttavia, per varie ragioni note i lavoratori, anche informati, potrebbero non aderire ai fondi pensione e agli strumenti di welfare integrato». E come si vede dalla fotografia scattata da Covip a fine 2013, le adesioni crescono, ma continuano a essere attrezzati solo 6 milioni di lavoratori su una platea di 23 milioni. Peraltro aggiunge Marè: «Il decollo dei fondi pensione è stato un successo ma hanno aderito i lavoratori più forti e protetti: in prevalenza, uomini, intorno ai 50 anni, del Nord, di aziende con molti occupati, dipendenti privati, vicini al sindacato e con altri investimenti finanziari. È una sorpresa o un effetto voluto? Da una parte non dovrebbe essere una sorpresa, vista la promozione fatta nel 2007, e le oggettive condizioni di allora. Dall’altra però è troppo poco, perché le caratteristiche degli aderenti potrebbero far sorgere l’accusa che il secondo pilastro sia la previdenza complementare dei lavoratori forti e protetti».

Intanto i tempi per ripensare il sistema sono stretti. «Gli aggiustamenti vanno realizzati subito, il prima possibile, perché l’età del median voter passerà da 44 a circa 55 anni nel 2060. Perciò l’opportunità di ulteriori aggiustamenti si restringe, dato il potere elettorale crescente dei pensionati», avverte Marè. Che ritiene che vada esplicitamente previsto un meccanismo di solidarietà e perciò ripensato il sistema pensionistico nella direzione di tre pilastri: con un primo pilastro sostanzialmente di base, con precise condizioni di accesso (anzianità/contribuzione), il secondo pilastro a ripartizione contributivo obbligatorio e il terzo pilastro (fondi pensione, sanitari) con natura volontaria». Infine va fatta una riflessione anche su come allocare i risparmi previdenziali: «I fondi pensione hanno investito i propri asset in obbligazioni pubbliche e azioni in prevalenza estere, con scarso beneficio per l’economia italiana. Va allora individuata una soluzione di mercato, volontaria, senza vincoli di portafoglio, per far affluire le risorse alle pmi, che metta insieme domanda e offerta. Questa soluzione andrebbe proposta dai fondi pensione il prima possibile, per smontare il rischio politico e le tentazioni polacche dei governi». Secondo Marè l’idea del tfr in busta paga e della previdenza complementare all’Inps sono due idee sbagliate. Il tfr in busta paga priverebbe di risorse le imprese e i fondi pensione. Ed è tutto da dimostrare che in questa situazione sarebbe speso e non risparmiato: «Devolvere il patrimonio dei fondi pensione all’Inps è invece semplicemente una follia. Non per l’Inps in sé, che fa bene il proprio lavoro, ma per altri motivi. Il punto delicato è la governance economica, il rischio che gli investimenti siano decisi con finalità di politica economica, anche legittime, e non con quelle di prudenza, sana gestione e massimizzazione dei rendimenti».

 

Detto questo non è facile arrivare a una maggiore trasparenza per quanto riguarda il futuro pensionistico. «E ciò è particolarmente vero per le pensioni. Tutti sanno ormai quali sono le questioni fondamentali. Ma l’informazione finanziaria è difficile e presenta un costo politico enorme. Per cui si tende a rinviare». Marè riconosce che offrire previsioni individuali sul grado di copertura pensionistico richiede un coraggio politico molto forte, può generare ansia e sconcerto di cui non si sente adesso il bisogno. La natura e la durata dei governi italiani rende impensabile che vi siano incentivi adeguati al riguardo: le previsioni non solo sono tecnicamente difficili, ma anche politicamente costose e impossibili. Così le buste colorate inevitabilmente si convertono in buste «senza colore o trasparenti». E qui secondo il presidente di Mefop sta il vero vantaggio dei fondi pensione, dei sistemi a capitalizzazione: quello di minimizzare il rischio politico, di lasciare uno spazio di manovra ai governi più limitato, proprio perché ogni intervento sarebbe molto visibile e fortemente lesivo dei diritti di proprietà, come è avvenuto di recente, repentinamente, in Polonia. (riproduzione riservata)