di Stefano Padovani*  

Se il tema del rapporto tra economia e morale è trasversale a tutte le grandi religioni, in quella musulmana tutta l’economia è permeata da principi morali. In particolare i divieti coranici dell’usura e dell’alea trovano applicazione in tutti Paesi, in quanto validi per ogni credente, ovunque si trovi. Si può dire che si tratta di una finanza etica ante litteram, con la quale il confronto si fa oggi indispensabile se si considerano pochi dati demografici e macroeconomici: secondo le attuali proiezioni, nel 2025 circa un terzo della popolazione mondiale sarà di fede musulmana (2,5 miliardi), il 65% dei musulmani vive in Asia (con fortissima presenza in India e Cina) e nella sola Ue ce ne sono 40 milioni. In una fase storica in cui la crescita tende sempre più a spostarsi da Ovest verso Est, non occuparsi di tale fenomeno, soprattutto per un Paese come l’Italia in grave recessione da diversi anni e con significativo bisogno di attrarre investitori esteri, vorrebbe dire perdere una grande occasione. La finanza è solo un aspetto dell’economia musulmana (la cosiddetta halal industry, da «halal», opposto di «harar», con il quale si intende il divieto dei comportamenti eticamente scorretti, come il gioco, la produzione e il consumo di bevande alcoliche e carne di maiale, la pornografia, che si estende a settori quali l’alimentare, la cosmesi, il bio-pharma, i trasporti, l’istruzione, il lifestyle e molti altri, che valgono circa 2.300 miliardi di dollari l’anno e crescono in media del 10%. Tra i Paesi europei all’avanguardia sul tema della finanza islamica ci sono il Regno Unito, che sarà il primo Paese al di fuori del mondo musulmano a finanziarsi attraverso i sukuk (i bond islamici, titoli asset – o cash flow – based che attribuiscono all’investitore una quota di partecipazione all’investimento sottostante con rendimento predeterminato ovvero una partecipazione ai relativi profitti e perdite) e Lussemburgo, alla cui borsa sono già quotate circa 16 emissioni di sukuk.

 

E l’Italia? Nonostante la presenza di circa 1,3 milioni di musulmani e una posizione geografica che ne fa un ponte naturale tra Europa e mondo arabo, e pur essendo la finanza islamica da tempo oggetto di studio, questa è in larga parte sconosciuta. In termini generali, la finanza islamica pone due ordini di problemi: da un lato lo stabilimento in Italia di banche islamiche che operano solo secondo i precetti della Shari’ah (il codice delle leggi morali e religiose cui devono conformarsi i prodotti finanziari islamici), ovvero di filiali di banche convenzionali specializzate in prodotti finanziari Shari’ah compliant, ovvero ancora di «sportelli islamici», ossia unità ad hoc di banche convenzionali che offrono questi prodotti. Qui acquistano rilevanza i temi di vigilanza, stabilità, gestione dei rischi, liquidità e armonizzazione contabile, senza dimenticare la dimensione europea del mercato unico dei servizi finanziari, che consente alle banche islamiche insediate in altri Paesi Ue di offrire servizi in Italia beneficiando del passaporto europeo.

Il secondo ordine di problemi riguarda contrattualistica e diritto tributario, e può essere affrontato sotto tre profili. In primo luogo quello dell’impiego in Italia di contratti conformi alla Shari’ah atipici, in quanto non aventi disciplina nel nostro ordinamento, che possono superare il vaglio dell’art. 1322 del codice civile solo in quanto tese a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Il secondo profilo è la valorizzazione di figure contrattuali già previste dal nostro ordinamento, in particolare quelle aventi una causa in senso lato partecipativa, quali l’associazione in partecipazione (art. 2549 c.c.), gli strumenti finanziari partecipativi (art. 2346, sesto comma), e i patrimoni e finanziamenti destinati a uno specifico affare (art. 247-bis e s.s.), il cui utilizzo in conformità ai principi della Shari’ah andrà di volta in volta verificato sulla singola operazione. L’ultimo aspetto è l’intervento normativo ad hoc che crei, come avvenuto in altri Paesi europei, le condizioni giuridiche per affermare i prodotti di finanza islamica. In tale chiave, nei recenti interventi sulla disciplina dei minibond, contenuti nel decreto Destinazione Italia, si sarebbe potuto forse osare di più, valorizzando maggiormente la parte variabile della remunerazione dei bond partecipativi, così da consentire ai vari fondi sui minibond già costituiti o in via di costituzione, di attrarre capitali anche da investitori che intendono seguire i dettami della Shari’ah. Il fondo che intendesse operare in conformità a tali principi non potrebbe infatti investire in titoli su cui è corrisposto un interesse fisso o determinabile. (riproduzione riservata)

*partner, Nctm Studio Associato