Mariano Mangia

Roma M entre le banche retail sembrano aver riscoperto la figura del promotore finanziario, non si arresta la migrazione di personale bancario di alto profilo alle divisioni di private banking delle reti di promozione finanziaria. La percentuale di bancari sul totale di nuovi inserimenti va dal 30% di FinecoBank fino al 100% del Wealth Management di Azimut che in quattro anni ha reclutato 80 persone, con un patrimonio passato da 1,2 a 4,7 miliardi. «Ci crediamo molto, stiamo stati i primi, quattro anni fa, a pensare, con un brand creato apposta, di attirare persone dal profilo molto alto che da noi trovano una forte flessibilità, delle economics interessanti e una offerta di prodotti e servizi che non ha nulla da invidiare alle migliori realtà del private banking, nazionali e internazionali », sottolinea Paolo Martini, direttore commerciale del gruppo. Anche per altre realtà attingere al serbatoio delle banche tradizionali è una scelta quasi obbligata. «Abbiamo un portafoglio medio intorno ai 40 milioni, più del doppio dei nostri migliori concorrenti, quindi è evidente che ricerchiamo profili di grande esperienza, espressione delle migliori realtà sia di provenienza bancaria sia private», spiega Bruno Manera, Sales Manager Italy di Banca Generali Private Banking, dove non meno dell’80% di nuovi entrati proviene da divisioni private bancarie. Va detto che il momento appare quanto mai propizio, le banche tradizionali sono alle prese con tagli di sportelli e di personale e, in

qualche caso, con una redditività traballante. Quello che stupisce, semmai, è il fatto che il personale che lascia la banca per approdare alle reti è, in realtà, proprio quello che svolge un lavoro gratificante, in un segmento strategico, certamente non a rischio di tagli. «Le banche con i problemi di conto economico fanno fatica a fare promozioni, a concedere aumenti di stipendio, l’aria che si respira dentro questi istituti non deve essere certo quella dell’entusiasmo», è l’opinione di Massimo Doris, amministratore delegato di Banca Mediolanum. «In un momento così si hanno degli argomenti in più per convincere quelli più capaci, più intraprendenti, quelli disposti a fare un cambiamento importante». Per Mauro Albanese, direttore commerciale rete di Fineco, le difficoltà del settore bancario hanno indebolito anche il senso di appartenenza alla categoria, l’orgoglio di essere un professionista della banca, ma non dubita in una reazione delle banche tradizionali. «E’ chiaro che in prospettiva i due mondi, i due modelli, non potranno che convergere. Sicuramente le banche cercheranno di dare più flessibilità al ruolo di relationship manager, di private banker, e magari cercheranno di passare, nei limiti imposti dalle normative, anche a un diverso approccio alla remunerazione, più variabile». Ma quali sono gli elementi su cui può far leva una rete di promozione finanziaria? Sicuramente l’aspetto economico è un elemento rilevante. «Non c’è margine di trattativa se non esiste, di fondo, anche una motivazione economica che in una decisione come questa non può non pesare, ma vanno considerate anche le prospettive di sviluppo, di formazione e di servizio che una realtà sa offrire al private banker», è l’opinione di Manera. «Fino a qualche anno fa le maggiori garanzie che il bancario aveva, la sicurezza del posto, i benefit accessori, il senso di appartenenza a strutture importanti, bilanciavano quello che poteva essere il gap di remunerazione », aggiunge Albanese. Oggi gran parte di questi vantaggi sembrano persi o si sono ridotti e il divario tra la retribuzione annua lorda di un dipendente bancario e quello che può guadagnare in una rete un private banker è decisamente alto. Forza del brand, ampiezza dell’offerta, maggiore autonomia, modelli organizzativi più flessibili e maggiormente coinvolgenti sono più o meno gli altri punti di forza che le reti rivendicano. In Banca Mediolanum sottolineano un aspetto peculiare: «Rispetto ad altri, noi offriamo al bancario, in un certo senso, l’opportunità di continuare a fare il lavoro che faceva prima. Nelle altri reti la banca è usata quasi come un prodotto secondario rispetto ai prodotti di investimento, noi invece abbiamo investito tantissimo nella nostra banca, offrendo tutti i servizi. Puntiamo a essere l’unica banca per i nostri clienti, lo siamo già per il 40% della clientela, per il 55% siamo la banca primaria». Su questo tema Azimut si colloca sul fronte opposto: «Non siamo banca, ma abbiamo tre importanti partnership, non è più un punto di attenzione, ma solo un tema che deve essere spiegato bene», ammette Martini secondo il quale «il fatto di non essere banca è un vantaggio, perché ci permette di scegliere la banca migliore per le esigenze dei diversi clienti e dei diversi banker». L’ultima annotazione riguarda le trattative che non si chiudono e i motivi che possono ostacolare il passaggio dalla banca a una rete e li sintetizza Manera di Banca Generali: «La paura di cogliere una nuova sfida o perché il collega è legato a un patto di non concorrenza molto forte, il tempo necessario per trasferire il portafoglio non è sufficiente, oppure perché la relazione con il cliente non è così forte da permettere un passo del genere».