di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Nella macchina del tempo dei fondi pensione i capitali investiti possono restituire al momento del ritiro dal lavoro quasi il 60% in più rispetto a un fondo comune. Ciò è possibile, a parità di altre condizioni, grazie al fisco, che sui comparti previdenziali morde molto meno.

 

Per esempio, un lavoratore con un reddito annuo lordo di 60 mila euro e che investe per 40 anni versando ogni anno 2 mila euro in un fondo pensione alla fine del piano di investimento avrà accumulato un montante netto di 110 mila euro, mentre se avesse scelto un fondo comune il capitale finale sarebbe di 68,9 mila euro, con una differenza di 41 mila euro. Il fondo pensione consente quindi di avere un 60% in più. I 2 mila euro investiti nel fondo pensione infatti possono essere portati in deduzione dalla base imponibile dal momento che i contributi versati usufruiscono della deducibilità fiscale fino a un massimo di 5.164,57 euro l’anno. Si tratta di uno sconto fiscale immediato pari all’aliquota marginale Irpef del lavoratore. Nel fondo comune, a parità di reddito disponibile dopo il pagamento dell’Irpef, il soggetto non verserà 2 mila euro, ma una cifra inferiore pari nell’esempio a 1.240 euro. Minori contributi vogliono dire minori rendimenti e un montante finale più basso. È questo aspetto il punto di forza maggiore del fondo pensione, che compensa il fatto che al termine ci sarà la tassazione del montante sulla parte derivante dai contributi dedotti.

 

Infatti al termine del percorso nel fondo pensione in fase di erogazione della prestazione pensionistica (capitale o rendita) verrà applicata una tassazione con aliquota del 15% sugli importi relativi ai contributi dedotti. Tale percentuale viene ridotta dello 0,3% per ogni anno eccedente il quindicesimo di partecipazione al fondo, con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali. Si può quindi raggiungere un’aliquota minima di tassazione sulla prestazione del fondo pensione del 9% dopo 35 anni di anzianità. Un altro caso: per un soggetto con un reddito lordo di 30 mila euro che contribuisce con 1.000 euro l’anno per 30 anni il montante netto del fondo pensione sarebbe di 36,8 mila euro, quasi 9 mila euro in più dei 36,8 mila euro netti accumulati nel fondo pensione.

 

Il quadro emerge da una simulazione condotta per MF/Milano Finanza da Mefop, società per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione, in modo da stimare l’impatto della minor tassazione dei fondi pensione rispetto a un fondo comune. Per la prima volta, inoltre, l’analisi è stata effettuata tenendo conto dell’applicazione dell’imposta di bollo dello 0,15% (con un minimo di 34,2 euro) introdotta lo scorso anno su tutti gli investimenti, a eccezione dei fondi pensione (e dei fondi sanitari). «È stata considerata solo una contribuzione a carico del lavoratore, dato che il fondo comune non potrebbe accogliere il contributo del datore di lavoro e il tfr», spiega Luca Di Gialleonardo (area economia e finanza di Mefop). Il quale ha ipotizzato quattro lavoratori tipo che si differenziano in base al reddito lordo (30 mila e 60 mila euro) e agli anni di investimento (30 e 40 anni). «I quattro casi sono stati impostati per evidenziare l’effetto del reddito e del tempo sul vantaggio della previdenza complementare: sui redditi più alti l’impatto della deducibilità è maggiore e quindi, a parità di contributi effettivamente a carico del soggetto, nel fondo pensione è possibile un versamento più elevato. Questi vantaggi sono tanto più evidenti quanto più lungo è il periodo di accumulo, anche grazie alla minore tassazione della prestazione finale del fondo pensione, che scende fino al 9%», aggiunge Di Gialleonardo. Anche i rendimenti finanziari godono di un’importante agevolazione fiscale; l’imposta applicata, per esempio, sui fondi comuni è pari al 20%, il 9% annuo in più rispetto alla tassazione dei rendimenti ottenuti con il fondo pensione, pari all’11%. Su questo fronte la simulazione ha preso come riferimento un investimento obbligazionario per entrambe le forme, con un rendimento reale (da disposizioni Covip) del 2% annuo. Non si considerano invece costi diretti e indiretti (che si ipotizzano uguali tra fondo pensione e fondo comune) e le detrazioni per tipologia di lavoro in fase di analisi della deducibilità fiscale. In ogni caso i valori finali sono depurati dall’inflazione. E non viene considerata la Tobin Tax, dato che non è possibile prevedere il volume delle transazioni.

 

Le analisi di Mefop sono impostate considerando come punto di partenza l’uguaglianza del reddito disponibile per il lavoratore dopo il versamento del flusso contributivo. «Per il fondo comune è stata comunque considerata anche l’imposta di bollo e l’applicazione della tassazione sul capital gain al termine», aggiunge Di Gialleonardo. Proprio l’imposta di bollo, che di fatto è una patrimoniale, è la vera novità degli ultimi mesi. Ma il super bollo non è l’unico balzello introdotto o inasprito su rendite e patrimoni. Per blindare i conti dello Stato negli ultimi 18 mesi prima il governo Berlusconi poi l’esecutivo Monti hanno messo nel mirino il vero petrolio degli italiani, ossia il risparmio. In pochi mesi è stata varata la maxi imposta di bollo ed è stata cambiata l’imposta sul capital gain dal 12,5 al 20% con l’eccezione degli investimenti in titoli di Stato. A questi interventi, studiati per incrementare le entrate dello Stato alle prese con l’emergenza spread, si è aggiunta anche la tassa anti-speculazione. Ossia la Tobin Tax, introdotta da quest’anno per le operazioni di negoziazione su azioni e derivati. Da tutta questa pressione fiscale si sono salvati soltanto i fondi pensione. Che già godevano di diversi vantaggi fiscali. A partire dalla possibilità di dedurre i contributi versati entro il limite annuo di 5.164,57 euro, oltre alla tassazione ridotta dei rendimenti finanziari con aliquota dell’11% (quindi ancora più bassa di quella prevista per i titoli di Stato). I fondi pensione danno anche la possibilità di recuperare a scadenza quanto non dedotto in fase di contribuzione. Si tratta quindi di un cocktail di agevolazioni che danno una marcia in più ai fondi rispetto a forme di investimento sempre di medio-lungo termine. Una buona notizia per risparmiatori. I quali dovranno fare i conti con le conseguenze della politica monetaria espansiva di Bce e Fed che terranno a lungo i tassi ai minimi per permettere agli Stati di superare l’impasse del debito. Così, in uno scenario di rendimenti vicino allo zero (se non negativi in termini reali) per gli strumenti a basso rischio, la sfida per i risparmiatori sarà doppia: dovranno difendere i propri soldi non solo dall’inflazione, ma anche dai prelievi fiscali che ormai non riguardano più solo i capital gain, ma anche il capitale. Ciò vale sia per chi investe in strumenti finanziari sia per chi preferisce il mattone. Per la casa infatti c’è l’Imu, che quest’anno ha fatto incassare allo Stato 24 miliardi. Senza dimenticare la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie che scatterà da marzo 2013, l’aliquota unica sul capital gain unificata al 20% (a eccezione dei titoli di Stato), la tassa sui capitali scudati e quella sulle attività finanziarie detenute all’estero, oltre alle tasse su auto, barche di lusso, aerei ed elicotteri. In totale tutti questi balzelli hanno fatto incassare oltre 31 miliardi nel 2012, per salire a oltre 35 miliardi nel 2013, quando le tasse sui patrimoni diventano più incisive.

 

Ci sono poi alcuni prodotti più penalizzati di altri. Per esempio, per le gestioni patrimoniali individuali è stata introdotta l’Iva sulle commissioni di gestione, balzello che non riguarda le altre forme di investimento. D’altra parte di un’integrazione alla pensione pubblica ci sarà sempre più bisogno. Le regole introdotte con la riforma Monti-Fornero dovrebbero infatti comportare una sostanziale stabilizzazione nel lungo periodo della spesa per il sistema pensionistico obbligatorio. Il provvedimento determina un ulteriore aumento dell’eta di pensionamento, introduce una parità di trattamento tra uomini e donne e abolisce di fatto le pensioni di anzianità. Le nuove regole allontanano l’assegno, ma resta aperto il tema su quanto la pensione potrà garantire dell’ultimo stipendio. «Una delle maggiori sfide è la realizzazione di un sistema previdenziale finanziariamente sostenibile nel tempo e capace di garantire agli anziani un livello di vita adeguato. Una sfida non facile, anche perché i giovani in particolare non sembrano percepire in pieno l’impatto che tale passaggio avrà sulla qualità della loro vita. Ancor meno sembrano orientati a contrastare tale condizione, come risulta da una recente indagine. Solo il 60% degli italiani, il livello più basso in Europa, ritiene una propria responsabilità pensare alla pensione e la percentuale è ancora più alta fra i giovani. Convincerli a uscire da questa condizione, a seconda dei casi di sfiducia o di inerzia, è compito di coloro che credono nella previdenza complementare», ricorda Antonio Finocchiaro, presidente di Covip.

 

Anche se la riforma ha reso più solidi i conti dello Stato e dell’Inps, il futuro pensionistico degli italiani non è certo roseo. «I vuoti contributivi, le basse retribuzioni e il calo del pil rischiano di produrre nel tempo livelli di copertura del sistema obbligatorio particolarmente ridotti. Già oggi, secondo l’Inps, il 35% dei pensionati dispone di un assegno pensionistico inferiore a 1.000 euro e 740 mila persone ricevono meno di 500 euro al mese. Si può vivere dignitosamente con questi importi? «Credo di no», ricorda Finocchiaro. Naturalmente per un giovane è necessario informarsi per decidere di accantonare oggi per qualcosa che arriverà fra 35-40 anni. «Purtroppo l’aspetto della comunicazione è stato finora trascurato». Di fatto è necessario informare i destinatari della più recente riforma sulle nuove regole, sulla differenza fra salario e pensione alla fine della vita lavorativa e su come fronteggiare tale differenza. Tale comunicazione difficilmente arriverà in concomitanza con la campagna elettorale, ma più tardi si avviano forme di risparmio destinate alla pensione più sarà complicato avere un’integrazione adeguata. Perché, come ricorda Finocchiaro, «alla fine dello scorso anno solo il 18% dei lavoratori con meno di 35 anni era iscritto a un fondo pensione. Comprensibile, in considerazione della elevata disoccupazione e precarietà, ma allarmante se si pensa che la platea giovanile rientra totalmente, ai fini pensionistici, nel metodo contributivo». (riproduzione riservata)