di Giuliano Castagneto

I fresh e poi Alexandria, Santorini, Nota Italia. Quattro nomi per un solo, nuovo incubo. Per Siena, la sua banca ma anche per l’intero sistema finanziario. Gli strumenti elaborati da JP Morgan, Deutsche Bank e Nomura a sostegno di Mps per l’acquisizione di Antonveneta e acquistati dalla Rocca sotto la gestione di Giuseppe Mussari (presidente), Antonio Vigni (dg) e Gianluca Baldassarri (capo della finanza) riaprono una ferita che ancora non si era cicatrizzata dopo il crack di Lehman.

 

Da allora tante buone intenzioni, parole di condanna ma nessun intervento legislativo mirato per disciplinare l’abuso della finanza nei bilanci bancari e non. Così le banche, anche quelle italiane, sono sedute su una mina pronta a esplodere. Quella appunto dei derivati sui tassi di interesse, in particolare degli swap. Una carica da 5.500 miliardi di dollari, stando alle rilevazioni della Banca d’Italia al 30 giugno dello scorso anno riportate nella tabella in pagina. Anzi, il sequestro preventivo di poco più di 350 mila euro disposto dalla Procura di Trani venerdì 1 febbraio, nell’ambito di un’indagine nei confronti di funzionari e dirigenti della filiale della Banca Mps di Corato, in provincia di Bari, su denuncia di un’azienda locale, farebbe pensare che la mina stia già esplodendo.

La denuncia era stata sporta dal titolare di un’impresa che si era vista addebitare la somma complessiva di circa 415 mila euro a causa delle perdite legate alla sottoscrizione appunto di un derivato sui tassi, in particolare uno swap, su un valore nazionale di circa 4,5 milioni proposto dalla banca a copertura di un finanziamento richiesto dall’azienda e peraltro mai concesso.

Ma potrebbe un episodio così limitato scatenare un autentico terremoto? Certo, fa effetto se la magistratura penale si muove nei confronti degli istituti di credito in merito a situazioni che in realtà sono estremamente diffuse e che si sono prodotte sia per la discesa dei tassi di interesse ufficiali a livelli minimi (ed è veramente paradossale che la cosa stia provocando seri danni ai conti di molte aziende) sia per alcune pratiche commerciali diffuse presso le stesse banche. Infatti le indagini si sono estese anche ai derivati venduti ad alcune imprese pugliesi da parte delle locali filiali di Unicredit, Bnl, Intesa Sanpaolo e Credem, coinvolgendo decine di dipendenti.

In realtà, sottoscrivere un derivato che consenta di ridurre il rischio sui tassi di interesse fa parte della buona gestione finanziaria.

Tra l’altro i prodotti finiti nel mirino della procura pugliese, specializzata sui reati finanziari, sono concettualmente piuttosto semplici. Un swap di tasso infatti prevede che due controparti, in questo caso una banca e un’azienda, si scambino flussi finanziari in modo tale che una percepisca o paghi un tasso fisso o variabile, a seconda delle sue preferenze. In altri termini, un’azienda, se vuole proteggersi da un eventuale aumento dei tassi, stipula un contratto swap con una banca strutturato in modo tale da trasformare il tasso su un prestito da variabile a fisso, semplicemente pagando o ricevendo la differenza tra i tassi di mercato (di solito l’Euribor per i mutui espressi nella moneta unica) e quello stipulato in base al contratto. Ovviamente, in cambio di questo vantaggio l’impresa riconosce alla banca delle commissioni.

Molte aziende italiane si sono ricoperte contro una salita dei tassi ricorrendo appunto a questi contratti swap. In molti casi incentivate a farlo da funzionari e dirigenti periferici delle banche ansiosi di aumentare i volumi di attività e quindi i ricavi degli istituti di credito. La crisi dei mercati interbancari successiva al fallimento di Lehman e le conseguenti massicce iniezioni di liquidità da parte delle principali banche centrali, hanno fatto sì che i tassi sui mercati monetari scendessero a livelli mai visti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ciò a sua volta ha comportato che gli esborsi da parte delle aziende sottoscrittrici dei contratti swap si facessero sempre più onerosi. Comportando quindi anche notevoli perdite in bilancio.

Le imprese, dopo aver fatto presente il problema alle banche, hanno rinegoziato questi contratti, in modo tale che l’istituto ripianasse (in apparenza) la perdita riconoscendo una somma (in gergo tecnico upfront) che riportasse le partita tra le controparti in parità. Come dovrebbe essere nel caso dei prodotti trattati fuori dai mercati regolamentati, i cosiddetti Otc. Sennonché, le nuove condizioni non hanno fatto altro che amplificare la perdita per le imprese contraenti. A questo punto molte imprese hanno ulteriormente rinegoziato i contratti. Una società del Nord Italia dal fatturato nell’ordine di qualche decina di milioni di euro è arrivata a rinegoziare il swap per 17 volte, vedendo la perdita lievitare ogni volta, fino a raggiungere la cifra monstre, per le dimensioni dell’azienda, di circa 3 milioni di euro.

Il contenzioso non è una novità, oggi le cause in corso sono innumerevoli, ma l’iniziativa presa dai Pm di Trani Michele Ruggero e Antonio Savasta ha certamente fatto fare un salto di qualità al fenomeno. Finora infatti controversie di questo tipo si sono risolte o con transazioni oppure facendo ricorso ad arbitrati. Niente quindi che richieda l’intervento della magistratura penale. Se poi tale intervento sia giustificato va accertato caso per caso. Se non è possibile escludere a priori l’esistenza di comportamenti fraudolenti, «non è neanche possibile affermare che le banche abbiano sempre cercato di raggirare i clienti», osserva Andrea Resti, docente di Economia degli intermediari finanziari presso la Bocconi di Milano.

Che cosa rischiano quindi davvero le banche? Non c’è dubbio che la sentenza con cui lo scorso 19 dicembre il Tribunale di Milano ha condannato quattro banche per truffa ai danni del Comune su un prodotto derivato abbia creato un importante precedente, che può rendere molto più delicato per gli istituti vendere prodotti finanziari complessi. Ma a parte il fatto che di questa sentenza sono ancora attese le motivazioni, va sottolineato che JP Morgan, Deutsche Bank, Depfa e Ubs agivano sia come controparti che come consulenti di Palazzo Marino, e in quest’ultima veste, recita la sentenza, non avevano informato adeguatamente il Comune del rischio dell’operazione. Una fattispecie che nel caso degli swap venduti alle aziende di solito non si verifica. Inoltre, sia Unicredit che Intesa venerdì 1 febbraio si sono affrettate a definire «molto limitate» le cifre oggetto dell’indagine di Trani. Ma ciò non vuol dire che le banche possano dormire sonni tranquilli. «Il danno reputazionale, se anche un solo caso di truffa dovesse risultare nella rete di una banca, potrebbe essere sensibile, compromettendo un business redditizio» conclude Resti. (riproduzione riservata)