di Antonio Satta

Di sé dice di sentirsi «come l’uomo di Cirene», come quel Simone che secondo il Vangelo fu obbligato dai soldati romani a trasportare la Croce sul Golgota. La battuta è stata pronunciata da Antonio Patuelli di fronte ai colleghi del comitato esecutivo dell’Abi, che giovedì 31 gennaio lo hanno eletto presidente per acclamazione in sostituzione di Giuseppe Mussari, travolto dalla vicenda Monte dei Paschi.

Quella di Patuelli, in realtà, è una citazione più politica che evangelica, visto che la stessa frase la pronunciò Amintore Fanfani in uno dei momenti ciclici nei quali la Dc lo richiamava in servizio, perché gli altri cavalli della scuderia, di razza o no, non se la sentivano di affrontare la corsa. E il vezzo di questa citazione, comprensibile solo a chi ha avuto dimestichezza coi riti antichi della Prima repubblica, dice molto del nuovo presidente Abi ma anche della situazione del mondo bancario e della sua organizzazione di rappresentanza.

Patuelli, lo si è scritto fino alla nausea in questi giorni, è stato un politico di primo piano fino quattro lustri fa. Argomento che qualcuno ha utilizzato per sostenere che le porte girevoli tra banche e politica sono sempre ben oliate. Uscito di scena con gran frastuono Mussari, il cui tasso di vicinanza con il Pd senese e nazionale, ma per la verità anche con altri circoli politici, è ora analizzato quotidianamente da giornali e procure, ecco salire al suo posto in cattedra l’ex segretario vicario del Partito Liberale.

 

Una rappresentazione che Patuelli ovviamente respinge al mittente, ma che in realtà nel suo caso rischia di suonare effettivamente ingenerosa e non solo per lo iato che intercorre tra l’addio alle armi della politica e l’attuale ruolo di banchiere e di leader dell’associazione, ma anche perché il nuovo presidente dell’Abi nella Seconda Repubblica non è proprio voluto entrare. E non per la difficoltà di adattarsi a nuove regole, a cominciare da quelle elettorali. Ai suoi tempi, infatti, il giovane Patuelli era citato a modello per la capacità di emergere nonostante le condizioni di base decisamente penalizzanti. In tempi di unità nazionale prima e di pentapartito poi scontava il fatto di far parte della formazione politica più piccola e di avere il proprio collegio elettorale in Romagna, terra dove il poco spazio politico che lasciava il partitone egemone, il Pci, era occupato pressoché interamente dalla Dc. Basta andarsi a rileggere la saga di Giovannino Guareschi. Il palcoscenico era solo per Peppone e Don Camillo, il rappresentante liberale nel consiglio comunale di Brescello era il timido avvocato. Praticamente un figurante. Eppure Patuelli, classe 1951, la stessa di Pierluigi Bersani, Rosi Bindi e Denis Verdini, tanto per citare dei politici ancora in attività, già un anno dopo la laurea (in giurisprudenza all’università di Firenze) era segretario della Gioventù Liberale dopo aver vinto il congresso del 1976 a capo della componente della sinistra zanoniana. Qualche anno dopo era già vicesegretario del Pli e nel 1983 deputato, occupando un seggio difficile, strappato con i resti, che, dopo essere stato fermo un giro, riconquistò nel 1992. Proprio la legislatura in cui toccò il punto più alto della sua carriera politica, sottosegretario alla Difesa del governo Ciampi. Dopo un altro po’ di mesi, però, mollò tutto e non perché fu indagato dal pool di Mani Pulite per un’ipotesi di finanziamento illecito da 30 milioni di lire. Da quell’accusa fu prosciolto rapidamente e con la formula più ampia.

No, Patuelli mollò perché capì che la Seconda repubblica, che si delineava dopo il referendum elettorale di Mario Segni, avrebbe archiviato tutti i partiti storici e a lui non andava di riciclarsi in altri contenitori. Dei suoi amici liberali qualcuno aderì al Patto Segni mentre i più trovarono riparo nella neonata Forza Italia. Lui però, cultore di storia risorgimentale (da editore ha pubblicato gli scritti economici di Cavour e anche un profetico testo di Marco Minghetti su I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione), trovava offensivi i kit elettorali e i provini di telegenicità. Dichiarò unilateralmente finita la politica e si mise quindi a fare altro. Ossia l’imprenditore agricolo (segue tuttora l’azienda di famiglia che produce cereali, legumi da granaglia e semi oleosi) e il banchiere.

 

Alla Cassa di Risparmio di Ravenna, storica enclave liberale in zona rossa e mazziniana, lo chiamò il notaio Sergio Bandini, che era da poco passato dalla presidenza della Fondazione a quella della banca in ossequio alla legge Amato. Da quel momento, prima vice di Bandini, poi dal 1995 suo successore, Ravenna e la banca sono state il punto fermo di Patuelli, con risultati che dal punto di vista industriale non sono certo disprezzabili. In questi vent’anni la banca è diventata un gruppo acquistando altri istituti, come la Banca di Imola (primo caso di fusione tra una cassa di origine associativa e una popolare), Il Banco di Lucca e del Tirreno e la Cassa di Milano. E adesso nella classifica di Lombard (che tiene conto di efficienza, profittabilità e qualità degli asset in portafoglio) il gruppo si è piazzato al secondo posto fra quelli che amministrano meno di 60 miliardi. Risultati raggiunti senza stock option e bonus (vietati dallo statuto insieme alle buonuscite per i manager) e senza derivati. Non a caso la Cassa si fa vanto di non aver «mai privilegiato l’alto rischio».

Parallelamente alla carriera bancaria, la seconda vita di Patuelli si è caratterizzata per la scalata ai vertici Acri (è da parecchi anni vicepresidente e capo della componente bancaria) e Abi (anche qui membro stabile del comitato esecutivo, poi vicepresidente, vicepresidente vicario e ora presidente). In questo caso, indubbiamente, le competenze dell’altra vita, quella politica, sono tornate utili, come sono servite a capire prima di altri che avere ex colleghi al governo non avrebbe spianato la strada alle banche in Parlamento. Luogo da dove sono partite sberle dolorose come la cancellazione delle commissioni bancarie. E proprio la reazione dell’Abi, con le dimissioni in blocco della presidenza, si deve alla regia di Patuelli, come sua è stata la successiva mediazione che ha risolto il caso. In fondo, non fare politica in proprio non significa non capirla. Anzi. (riproduzione riservata)