di Andrea Bassi

Dicono che una delle letture preferite di Francesco Gaetano Caltagirone siano i Pensieri di Marco Aurelio, l’imperatore-filosofo, che diceva: «Non intraprendere nessuna azione a caso, né in altro modo che non sia perfettamente a regola d’arte». E nell’arte degli investimenti il costruttore-editore ha seguito, fino ad oggi, una sola semplice regola. Sempre la stessa, essere il primo partner privato dietro un grande socio istituzionale. Non è, per rimanere a Marco Aurelio, un’azione a caso. Caltagirone, semplicemente, cerca sempre di avere un posto privilegiato, intorno al tavolo dove si danno le carte quando c’è da giocare la partita importante. E soprattutto di mediare. L’ingegnere, del resto, ogni sua mossa la studia a tavolino. Fin nei minimi dettagli, in perfetta solitudine, o al massimo sentito il parere del suo strettissimo inner circle. Come ha fatto quando, sorprendendo tutti, ha abbandonato Siena per Milano. Nel Monte dei Paschi Caltagirone ha sempre creduto e, nonostante ormai sia con tutti e due i piedi fuori dalla porta, continua ad essere convinto che resti una banca sana con ancora un ruolo da giocare. A Siena però è finita un’epoca, quella di Giuseppe Mussari e di Antonio Vigni, ai quali l’ingegnere aveva in qualche modo legato la sua presenza. Ma c’è pure la convinzione che quando cambia un regime, chi faceva parte del vecchio assetto deve sgombrare il campo per fare spazio alle nuove forze. In dieci anni il Monte qualche soddisfazione a Caltagirone l’ha data, ma l’uscita ha avuto un costo. Salato. Una minusvalenza di 200-240 milioni. Non è un dramma per un imprenditore accreditato di una liquidità di 1,5-2 miliardi di euro. E del resto circa un centinaio di milioni li avrebbe già recuperati con la plusvalenza teorica accumulata con l’acquisto dell’1% di Unicredit. Su Piazza Cordusio Caltagirone ha le idee chiare. La banca non è soltanto uno snodo fondamentale per l’intera ragnatela del capitalismo nazionale. Dopo l’aumento di 7,5 miliardi, Unicredit è uno degli istituti europei patrimonialmente più solidi e con una capillare presenza internazionale. Una circostanza che, per inciso, potrebbe tornare utile alle società del gruppo del costruttore-editore romano, che da tempo hanno avviato piani di sviluppo soprattutto in Turchia e nei paesi dell’Est, dove Unicredit ha una presenza importante. La banca, comunque, secondo Caltagirone avrebbe tutte le carte in regola per agganciare la ripresa prima e meglio dei concorrenti. Ma la sua situazione di governance è ancora confusa, nebulosa. Il quadro degli azionisti post aumento è ancora tutto da decifrare. Le fondazioni bancarie sono indebolite, ma difficilmente cederanno posizioni nella governance. Ai già delicati equilibri con i soci tedeschi arrivati in Piazza Cordusio dopo la fusione con Hvb e che avevano portato alla nomina di Dieter Rampl al vertice della banca, inevitabilmente si aggiungerà la complicazione dell’accresciuto peso dei fondi arabi (Aabar è il primo azionista con il 6,5%) e di quelli americani (anche se in realtà Capital Research, accreditata di oltre il 5%, alla fine si è fermato al 2,7%). Soci, questi ultimi, che avendo investito molto si aspettano anche alti ritorni e vorranno far sentire la loro voce. Le carte per il rinnovo del consiglio di amministrazione, che dovrà essere eletto dall’assemblea dell’11 maggio, le daranno comunque ancora le fondazioni. Con gli enti Caltagirone ha un ottimo rapporto, soprattutto con la componente torinese rappresentata dal vice presidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona, che secondo alcuni osservatori potrebbe prendere il posto di Rampl al vertice della banca. Troppo presto probabilmente per dire se, effettivamente, le cose andranno così. Quel che è certo, è che un posto nella governance, siano diciassette o venti i componenti, dovrebbe andare a Caltagirone. Se investe, infatti, lo fa sempre per sedersi al tavolo. Ovviamente non sarà lui ad occupare direttamente la poltrona. Dopo la norma-Catricalà che ha vietato l’incrocio d’incarichi tra società concorrenti, sarebbe costretto a scegliere tra Unicredit e le Generali. Le sue preferenze vanno al Leone, dove ormai è un vicepresidente di peso, come ha dimostrato il ruolo di mediazione che ha rivestito nella battaglia interna che ha portato all’uscita di Cesare Geronzi. Un episodio dopo il quale, per un po’, a Trieste era tornato il sereno. Ora il barometro ricomincia a prevedere brutto tempo. La Palladio Finanziaria di Roberto Meneguzzo, che ha dato insieme a Matteo Arpe l’arrembaggio a FonSai, partecipa tramite Ferak al capitale di Generali. Il progetto di fusione dell’ex gruppo di Ligresti con Unipol, che Meneguzzo e Arpe stanno tentando di far saltare, è stato partorito da Mediobanca e Unicredit. Sulla loro discesa in campo è stata fatta molta dietrologia. Qualcuno ci ha visto (ma lui ha smentito) addirittura la mano del ceo delle Generali, Giovanni Perissinotto, preoccupato di veder nascere un campione nazionale in grado di sfidare la leadership del Leone. Quello che è certo è che di questa guerra, Caltagirone, è solo e soltanto uno spettatore. Ma la sua posizione, come pure quella di altri soci stabili come Leonardo Del Vecchio, è certamente più vicina a Mediobanca e al suo numero uno Alberto Nagel. Se da Milano, passando per Trieste, si torna a Roma, qui l’interesse principale dell’ingegnere è sempre più concentrato su Acea, l’utility controllata dal Comune. La giunta Alemanno ormai ha esaurito tutta la sua spinta propulsiva. L’anno prossimo si vota e i giochi li deciderà la nuova amministrazione. Caltagirone, dopo la guerra (vinta) con i francesi, continua a comprare e salire nel capitale e ormai ha superato il 16%. Sui destini dell’utility, però, i punti interrogativi sono ancora tanti. Il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, non ha fatto mistero di vedere di buon occhio un’aggregazione tra tutte le municipalizzate elettriche, da A2A a Hera fino ad Acea. Difficile che uno come l’ingegnere, a cui i progetti calati dall’alto proprio non piacciono, si lasci sedurre. Acea, in realtà, ha altri problemi da affrontare. Dopo il divorzio con i francesi ormai fa praticamente solo distribuzione, la produzione è stata ceduta a GdF-Suez. Con quest’ultima ha fatto un accordo per la fornitura di energia a prezzi di favore, ma si tratta di un patto a termine. Prima che scada bisognerà comprare qualche centrale. Una strada migliore, probabilmente, rispetto alla troppo onerosa partecipazione alla gara per l’acquisto della rete gas di Roma. L’altro punto interrogativo è cosa farà il prossimo sindaco di Roma. Scenderà sotto il 50%? Troppo presto persino per porsela questa domanda, servirebbe la sfera di cristallo. Intanto se c’è un’attività che è uscita dal letargo è quella di Grandi Stazioni. La società alla quale Caltagirone partecipa insieme a Benetton, Pirelli e alle stesse Ferrovie, si è appena aggiudicata la gara per la gestione di Roma Tiburtina, il principale hub dell’alta velocità di Trenitalia. Il prossimo passo sarà candidarsi alla gestione degli altri scali. Un modo, idealmente, per accorciare le distanze tra Roma, Milano e Trieste. (riproduzione riservata)