Negli ultimi anni molto è stato detto e scritto sui rapporti tra Mediobanca e S a l v a t o r e Ligresti, sugli avvenimenti che, tra il 2001 e il 2002, portarono alla controversa fusione tra Sai e Fondiaria, sul «tradimento » dell’ingegnere di Paternò, che ebbe un peso non marginale nell’allontanamento di Vincenzo Maranghi dalla banca fondata da Enrico Cuccia, fino agli avvenimenti dell’ultimo anno e mezzo relativi ai tentativi di salvataggio della compagnia assicurativa. Un elemento chiave per comprendere appieno questa vicenda è sicuramente la lettera scritta da Maranghi a Ligresti all’indomani della fusione tra Sai e Fondiaria. In quella lettera, di cui si conosceva l’esistenza almeno fin dall’ottobre 2002 (essendo citata nel dispositivo con cui l’Antritrust ha costretto Mediobanca a uscire dal capitale di Fondiaria-Sai), ma il cui contenuto integrale è stato svelato solo lo scorso dicembre da Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera, l’allora amministratore delegato di Piazzetta Cuccia sollecitava l’ingegnere siciliano, diventato proprio in virtù del dettato dell’autorità garante per la concorrenza, unico dominus della nuova compagnia, ad andare oltre una gestione di tipo famigliare, invitandolo a un «cambio di passo». Una svolta che Maranghi riteneva indispensabile per tutelare al meglio quelli che riteneva i «veri padroni» di una compagnia di assicurazione, specie se di grande dimensione, ovvero gli assicurati, «essendo a loro vincolata e destinata grandissima parte del patrimonio societario». «La gestione di questo patrimonio», ammoniva Maranghi, «ove non fosse allineata ai migliori standard della professione, finirebbe per innescare una crisi di fiducia della clientela, con conseguenze gravissime per Fondiaria-Sai». Un monito, quello del banchiere, che per certi versi si è rivelato profetico, vista la profonda crisi in cui si è venuta a trovare la compagnia dopo 10 anni di gestione Ligresti. ?? dunque possibile immaginare (questa la tesi di Mucchetti) che il momento della rottura tra Maranghi e l’ingegnere di Paternò – che porterà quest’ultimo a schierarsi con Cesare Geronzi e Alessandro Profumo nell’ora della resa dei conti sulla governance di Piazzetta Cuccia – possa essere fatto coincidere con l ’ e m a n c i p a – zione, favorita anche dal provv e d i m e n t o dell’Antitrust, d i Fo n S a i dall’antico patronage (che viene fatto risalire addirittura al 1955) della banca d’affari. Forse, però, la lettera di Maranghi a Ligresti, più che l’elemento scatenante della rottura, potrebbe in realtà essere solo l’ultimo atto di una guerra strisciante tra i due, combattuta in silenzio per circa un anno (dal luglio 2001 al maggio 2002) e che si concluse con la vittoria dell’ingegnere siciliano ai danni del delfino di Cuccia. Una guerra, il cui obiettivo finale era la futura governance della compagnia che sarebbe nata dalla fusione tra Sai e Fondiaria, le cui cronache sono state puntualmente trascritte in alcuni documenti inediti risalenti al 2005 e che Milano Finanza è ora in grado di pubblicare. Si tratta dei verbali delle testimonianze rese da Maranghi e Ligresti nel corso del procedimento civile promosso nel 2003 davanti al Tribunale di Milano da Steno Marcegaglia (in qualità di azionista di minoranza della compagnia fiorentina) per ottenere il risarcimento per la mancata opa sulla Fondiaria da parte della banca di Piazzetta Cuccia e della compagnia della famiglia Ligresti. Questo procedimento, al pari delle altre dieci cause promosse di fronte al Tribunale dagli azionisti di minoranza della compagnia fiorentina, si è chiuso con un giudizio sfavorevole per Mediobanca e Fondiaria-Sai, anche se la Corte d’Appello di Milano ha già ribaltato quattro dei giudizi di primo grado, mentre altri sette sono ancora pendenti. Trattandosi di testimonianze rese nell’ambito di un procedimento che vede coinvolte sia Mediobanca sia Fondiaria-Sai nel ruolo di convenute è dunque lecito porsi l’interrogativo se le dichiarazioni rese da Maranghi (che peraltro nel 2005 era già uscito da Piazzetta Cuccia) e di Ligresti siano esclusivamente finalizzate a negare la tesi del concerto. Al lettore, dunque, il compito di valutarne l’attendibilità. Di certo, al di là del giudizio che ognuno potrà dare del contenuto di questi documenti, dal racconto dei protagonisti di allora emerge comunque un fil rouge che aiuta a comprendere alcuni aspetti, non certo secondari, delle le vicende attuali. Per esempio, quell’affectio societatis di Mediobanca nei confronti di Fondiaria, che Maranghi, di fronte al giudice Francesca Fiecconi indica come una delle ragioni alla base dell’impegno profuso dalla banca d’affari per tutelare la compagnia fiorentina dalle mire di controllo assoluto da parte di un unico soggetto privato (sia che si tratti della Montedison di Raul Gardini, della Fiat o della famiglia Ligresti) sembra essere ancora radicata nell’attuale management di Piazzetta Cuccia, quasi fosse una missione assegnata dalla storia. Così come sembra essere ancora oggi il faro di Pagliaro e Nagel la vis i o n e che M a r a n g h i aveva delle compagnie di assicurazioni. Più di un’analogia emerge infatti tra la posizione degli attuali vertici della banca d’affari, secondo cui il salvataggio di FonSai è necessario luogo per tutelare i diritti degli assicurati, e la filosofia esposta da Maranghi davanti al tribunale il 12 gennaio 2005. «La posizione di Mediobanca», spiegava il delfino di Cuccia, «era che, dopo la fusione tra Sai e Fondiaria, venisse mantenuto un azionariato equilibrato, nella convinzione che una compagnia di assicurazione che vende sicurezza, servizi e affidabilità, non debba essere riferibile a un singolo azionista, perché questo è importante non tanto nella percezione del mercato, inteso come la Borsa, quanto del mercato che è rappresentato da chi fa una polizza di assicurazione […]. Chi stipula un polizza vita spera di campare per altri vent’anni ma vuole capire se tra vent’anni la sua controparte sarà una controparte solida e solvibile». Ciò che però emerge davvero con forza dalla lettura delle testimonianze, è la crepa apertasi tra la banca di Piazzetta Cuccia e la famiglia Ligresti fin dal momento in cui la Montedison guidata da Enrico Bondi, pur sotto la regia della stessa Mediobanca, cedette il 29% della Fondiaria alla Sai. Maranghi e Ligresti, sentiti in qualità di testimoni dal giudice Fiecconi, rispettivamente il 12 gennaio e il 4 febbraio 2005, concordano sul fatto che fin dalle prime battute dell’operazione, nonostante Mediobanca e Premafin avessero un comune interesse ad arrivare all’integrazione tra Sai e Fondiaria, le rispettive posizioni fossero contrapposte in merito alla futura governance della nuova compagnia. «Mediobanca», spiega Ligresti, «aveva una partecipazione importante in Fondiaria (pari al 13,2%, ndr) ed era interessata a valorizzare il più possibile questa grossa partecipazione, ma aveva anche l’interesse di fare in modo, con il concambio e con la governance, di non dare in mano a una famiglia il controllo di un gruppo così importante». «Mediobanca», prosegue Ligresti «era in posizione direi contrapposta, vedeva la fusione in un modo, con il concambio e la governance fatti in modo diverso. La Sai vedeva la fusione fatta con il controllo da parte della società fusa. Sono due posizioni diverse». A supporto di questa tesi l’ingegnere di Paternò fornisce al giudice Fiecconi anche altri particolari, spiegando che anche l’operazione realizzata con Jp Morgan e gli altri quattro cavalieri bianchi (Commerzbank, Interb
anca, Francesco Micheli e Mittel) che acquisirono temporaneamente il 22,2% di Fondiaria, evitando così alla Sai di perdere la caparra da 250 milioni di euro versata alla Montedison (nel frattempo passata sotto il controllo di Fiat ed Edf), fu organizzata senza chiedere né il parere né tanto meno il consenso della banca d’affari di Piazzetta Cuccia. «Mediobanca», spiega Ligresti, «non sapeva assolutamente nulla di questo intervento con Jp Morgan, l’ha saputo dopo». La testimonianza dell’ingegnere siciliano di fronte al giudice Fiecconi si colloca nel solco tracciato solo qualche settimana prima, sempre davanti al Tribunale di Milano, da Maranghi. «Non c’è ombra di dubbio», è il racconto del banchiere, «che tra Mediobanca e il gruppo Ligresti ci fosse condivisione sul progetto industriale. Le posizioni in ordine alla chiamiamola, corporate governance, ma più specificamente parlerei di peso azionario nella compagnia risultante dalla fusione, erano posizioni diametralmente opposte». La banca d’affari, che fino ad allora era stata il secondo azionista di Fondiaria dietro alla Montedison (di cui peraltro, fino all’opa di Fiat ed Edf, era il primo azionista), puntava infatti a mantenere una partecipazione rilevante anche nella compagnia che sarebbe nata con la fusione, forte anche del circa 2% detenuto direttamente nella Sai. «Il nostro investimento in Fondiaria era molto maggiore di quello in Sai, quindi noi avevamo tutto l’interesse a difendere il nostro investimento in Fondiaria, il che significa avere certi rapporti di cambio». Opposta era invece la posizione di Ligresti, che avendo comprato il pacchetto di controllo di Fondiaria dalla Montedison puntava ad avere mano libera sulla compagnia. «La Sai voleva avere il controllo e quindi governare » la nuova compagnia, spiega ancora Ligresti, senza risparmiare critiche al modus operandi della banca di Piazzetta Cuccia. «La politica di Mediobanca era quella di non lasciare il controllo di un grosso gruppo in mano a una sola famiglia». L’addio di Ligresti. Stando alle dichiarazioni rilasciate da Maranghi e Ligresti davanti al Tribunale di Milano, la rottura tra i due si sarebbe dunque consumata proprio su questi aspetti. ?? lo stesso Maranghi a fare luce sull’accaduto. «I rapporti in ordine a questa operazione con il gruppo Ligresti a un certo punto si sono molto intiepiditi, perché evidentemente ci si è trovati su posizioni non allineate, soprattutto su questi aspetti di cui ho appena parlato […]. Per quanto riguarda, diciamo, l’assetto societario, l’assetto azionario di Fondiaria e di Sai messe insieme, la posizione di Mediobanca era diametralmente opposta a quella del gruppo Ligresti, e questa io penso che sia tra le principali ragioni di quelle che lei (si rivolge al giudice, ndr) ha chiamato fuga del gruppo Ligresti da Mediobanca». La testimonianza di Maranghi offre anche altri passaggi utili a comprendere le vicende attuali. Di fronte al Tribunale di Milano, il banchiere (scomparso nel luglio 2007) si sofferma ampiamente sul concetto di affectio societatis di Mediobanca per Fondiaria. «C’era una particolare affectio societatis di Mediobanca nei confronti della Fondiaria», spiega Maranghi al giudice, ragionando sull’origine di quell’antico legame. «Mediobanca aveva dedicato alla Fondiaria delle risorse professionali e finanziarie come poche volte si è verificato nella storia di Mediobanca e di altre partecipazioni. Non dimentichiamo che quando Mediobanca ha mantenuto la sua posizione in Fondiaria e il gruppo Ferruzzi- Gardini ha acquisito il controllo della Montedison, e per derivazione anche di Fondiaria, è stato devastante, perché quando si sono tirati i conti del risanamento del gruppo Ferruzzi, la Fondiaria era costata moltissimo, aveva subito delle perdite spaventose, quindi Mediobanca aveva dietro tutta una storia che riguardava il suo rapporto con la Fondiaria. E questa storia, diciamo, la portava ad assumere delle posizioni di particolare difesa del suo investimento, questa era la ragione sostanziale. Gardini aveva il 51% della Fondiaria; Mediobanca è stata nel capitale della Fondiaria, con la sua quota di partecipazione. E per fortuna, altrimenti la Fondiaria non esisterebbe più. Per fortuna Mediobanca c’è stata dentro, perché poi, quando si sono tirati i conti del dissesto del gruppo Ferruzzi, Mediobanca ha salvato sia la Montedison sia la Fondiaria». Ma è nel passaggio relativo alla decisione presa nell’ottobre 2002 dall’Antitrust, allora guidata da Giuseppe Tesauro – che impose a Mediobanca la cessione del 13% di Fondiaria, pena la sterilizzazione dei diritti di voto di Piazzetta Cuccia nelle Generali – che Maranghi, pur non essendo più da due anni al timone della banca, espone tutto il suo disappunto. «Io su questo, scusi signor giudice, ho la pelle molto sensibile, perché nella mia percezione l’autorità garante non ha fatto nessuna analisi dal punto di vista dei premi, delle posizioni di mercato, della concentrazione e quant’altro. Ha solo stabilito che Mediobanca doveva vendere la sua partecipazione nella Fondiaria perché se no le bloccava il voto sulle Generali. Tutte queste cose sono state decise a Roma, signor giudice». L’ex ad di Mediobanca non si capacita inoltre di come di fronte al non luogo a procedere decretato dall’Antitrust europeo, allora guidato da Mario Monti, l’authority italiana abbia preso una decisione così radicale, troncando il cordone ombelicale tra Mediobanca e la Fondiaria. «Questa era un’operazione che per le sue dimensioni doveva formare oggetto di esame da parte delle autorità garanti del mercato comunitario, perché se lei mette assieme Fondiaria, Sai, Generali e Mediobanca siamo nella stratosfera. Il signor Mario Monti, che è sempre stato, giustamente, più realista del re quando c’erano delle cose che riguardavano l’Italia, ci ha mandato un questionario di cinquanta domande e la Commissione di Bruxelles non ha proceduto. Dopodiché questa roba è tornata in mano italiana, non si sa per quale ragione, perché se non c’era là non poteva esserci neppure qua». Maranghi si sofferma anche sulla tanto discussa lettera manoscritta da lui inviata a Ligresti e utilizzata da Tesauro quale prova regina del concerto tra Mediobanca e la Sai. «L’Antitrust ha sequestrato una lettera personale che io ho scritto all’ingegner Ligresti, che tutto sommato, rileggendola, non era una lettera ignobile che gli scrivevo, forse aveva un certo contenuto di nobiltà dal punto di vista morale». E sulla base di questa lettera, Tesauro «ha messo Mediobanca con le spalle al muro, perché se avesse mantenuto la partecipazione nella Fondiaria non avrebbe potuto esercitare il diritto di voto sulle Generali. Lei si rende conto che all’epoca dei fatti la partecipazione di Mediobanca nelle Generali, essendo di 175 milioni di azioni a 35 o 30 euro, stiamo parlando di 4 mila e passa miliardi di vecchie lire? La partecipazione in Fondiaria era evidentemente non modesta, perché era oltre il 13% del capitale, ma i valori in gioco erano assolutamente diversi. Quindi Mediobanca con questa decisione dell’autorità garante è stata obbligata a cedere la sua partecipazione nella Fondiaria, cosa che Mediobanca in diverse condizioni probabilmente non avrebbe mai fatto». (riproduzione riservata)