di Roberta Castellarin e Paola Valentini

 Dopo la riforma Monti- Fornero i lavoratori restano di più al lavoro e versano contributi per più anni. Questo si traduce in un assegno mensile più ricco e quindi in un migliore rapporto di sostituzione rispetto all’ultimo stipendio. Ma questo assegno lo si incasserà per meno anni. E così nel rapporto costo/benefici della riforma nella maggioranza dei casi ci guadagna l’Inps e ci perdono i lavoratori. Emerge da un’analisi effettuata da Mefop, la società per lo sviluppo dei fondi pensione che ha calcolato per diverse tipologie di lavoratore l’indice di penalizzazione o di convenienza che deriva dalle nuove regole. Dal 1° gennaio di quest’anno sono entrati in vigore i nuovi requisiti per accedere alla pensione. L’età di accesso al trattamento previdenziale è stata innalzata. Gli uomini e le donne del pubblico impiego devono aspettare i 66 anni per ottenere la pensione di vecchiaia, mentre per le donne del settore privato l’innalzamento è graduale e si arriva a 66 anni nel 2018. È stata eliminata la pensione di anzianità, sono sparite le finestre mobili ed è stata rafforzata la logica della flessibilità di accesso al trattamento. Si può chiedere una pensione anticipata con 41 anni e tre mesi di contributi per le donne e con un anno in più per gli uomini. L’asticella si alza di un mese nel 2013 e di un altro nel 2014. Se poi il requisito è raggiunto prima dei 62 anni di età, è prevista una penalizzazione dell’1% per ogni anno di età, penalizzazione che sale al 2% per chi ha meno di 60 anni. Dal punto di vista del calcolo dell’assegno è stato esteso il metodo contributivo per gli anni a venire per tutti i lavoratori, compresi quelli che nel 1995 avevano più di 18 anni di contributi e che fino all’anno scorso avrebbero avuto diritto ancora al più generoso metodo retributivo. Per chi ha poi il puro contributivo nascono le finestre di flessibilità: si può uscire dal mondo del lavoro tra 63 e 70 anni con almeno 20 anni di contribuzione effettiva e un assegno che sia almeno pari a 2,8 volte la pensione minima sociale. Con un avvertenza: questi dati non sono fissati per sempre perché tutti i requisiti di età, i limiti di contribuzione della pensione anticipata e i coefficienti di trasformazione in rendita sono rivisti in base alla speranza di vita, che è soggetta a una revisione triennale fino al 2019, poi biennale. Sono state poi introdotte clausole di salvaguardia per i lavoratori in mobilità e per i lavoratori che avrebbero raggiunto nel 2012 i requisiti di 61 anni di età e 35 di contributi e per le donne di 60 anni di età e 20 di contributi. L’effetto principale della riforma è il ritardo del pensionamento che vuol dire meno rate pensionistiche da erogare per l’Inps e maggiori contributi versati. Questo si traduce nella maggioranza dei casi in una pensione e un tasso di sostituzione più alti, ma la combinazione penalizzazione e vantaggi non ha un effetto scontato. Mefop ha calcolato un indicatore che esprima quanto la riforma penalizza il lavoratore in base alla somma dei maggiori contributi da versare e dal totale degli assegni futuri che il lavoratore potrà ricevere. Per esempio un dipendente di un’azienda privata nato nel 1952 con 35 anni di anzianità, coniuge nato nel 1960 e reddito annuo lordo di 40 mila euro prima della riforma avrebbe dovuto versare all’Inps ancora 21 mila euro di contributi per ottenere poi un totale di assegni pensionistici di 893 mila euro. Dopo la riforma deve aspettare due anni e due mesi in più per il buen retiro, un periodo che si traduce in maggiori contributi per 34.500 euro. Visto che andrà in pensione più tardi prenderà la rendita per meno anni e quindi il totale delle sue pensioni future scende a 867 mila euro. Questo lavoratore subisce una penalizzazione di 60 mila euro che si può tradurre in un indice di penalizzazione del 6,95%. Dall’altra parte la rendita annua che può aspettare sale da 27.700 euro a 30.800 euro l’anno, con un miglioramento del tasso di sostituzione rispetto all’ultimo stipendio che passa dal 69,4 al 72,6%. Vive una situazione opposta una dipendente di un’azienda privata nata nel ’65 con un’anzianità contributiva di 15 anni e un reddito annuo di 30 mila euro. Con la nuova norma questa lavoratrice potrà andare in pensione anticipata a 65 anni, mentre con la vecchia normativa avrebbe dovuto aspettare i 68 anni. Questa lavoratrice dovrà versare meno contributi e riceverà la pensione per più anni. Ma il rovescio della medaglia è che la sua pensione annua scende da 24.900 euro a 20.240 euro. Oltre ai calcoli su convenienza e penalizzazione, la ricerca del Mefop presenta poi diverse questioni che restano aperte anche dopo la manovra salva-Italia. Se la riforma serve a gestire gli effetti di squilibrio rispetto ai quali è possibile una valutazione programmatica, come lo squilibrio demografico, non si preoccupa però di altri temi che restano aperti. In primo luogo il fatto che l’allungamento della vita lavorativa aumenta il rischio di discontinuità per il lavoratore. Non solo. Con l’invecchiamento del lavoratore cresce anche il rischio di salute e autosufficienza. A questo proposito iniziano a diffondersi forme di copertura tra gli enti previdenziali. Ad esempio nei giorni scorsi l’Epap, l’ente di previdenza e assistenza dei 25.563 attuari, chimici, geologi, agronomi e forestali, ha lanciato il servizio Long term care gratuito (il premio procapite di 20 euro all’anno è a carico dell’ente) per coprire dal rischio di perdita dell’autosufficienza gli iscritti di età inferiore ai 70 anni in regola con i contributi. La formula, realizzata da Generali e Ina Assitalia, copre l’assicurato fino al riacquisto dell’autosufficienza o vita natural durante. Peraltro la riforma del lavoro prevederà l’introduzione di strumenti di flessibilità del contratto i cui effetti non sono oggi quantificabili. Da qui anche la necessità di riflettere sul ruolo che potrà avere la previdenza integrativa e su una sua possibile evoluzione. Dalla manovra salva Italia escono rafforzati proprio i fondi pensione, grazie all’aliquota fiscale agevolata dell’11% contro il 12,5% dei titoli di Stato e il 20% degli altri strumenti finanziari. Questi prodotti sono esenti anche dall’imposta di bollo che è pari allo 0,1% per il 2012 e poi salirà dal 2013 allo 0,15%. Un appeal fiscale che per ora non è bastato a convincere i lavoratori ad aderire in massa ai fondi pensione. Il tasso di adesione in Italia resta basso rispetto al resto d’Europa. «Non vi è dubbio che interventi finalizzati a irrobustire ed estendere un sistema di rendite integrative», sottolinea Antonio Finocchiaro, presidente della Covip, «consentirebbero di bilanciare le misure in corso di adozione per le pensioni obbligatorie, incrementando la sostenibilità sociale di queste e attenuando, se possibile, le resistenze che accompagnano scelte sgradite». Un problema, quello della sostenibilità sociale, che deve affrontare tutta l’Europa. «Le pensioni sono oggi la principale fonte di reddito per circa un quarto della popolazione dell’Ue. Se l’Europa non riesce ad assicurare ora e in futuro pensioni decenti, milioni di persone si troveranno nella vecchiaia in condizioni di povertà. A partire dall’anno prossimo la popolazione lavorativa inizierà già a contrarsi. Le pensioni comportano una crescente pressione finanziaria sui bilanci nazionali, soprattutto alla luce delle ulteriori restrizioni recate dalla crisi finanziaria ed economica», scrive la Commissione euro
pea sul tema. E proprio a sostegno di questi sforzi la Commissione ha pubblicato un Libro bianco su pensioni adeguate, sicure e sostenibili. Il libro esamina il modo in cui l’Ue e gli Stati membri possono intervenire per affrontare le principali sfide cui sono confrontati i sistemi pensionistici. Esso propone iniziative volte a creare condizioni atte ad aiutare le persone a risparmiare di più e garantire che le prospettive di pensione siano mantenute. Intanto è giunto il bilancio dei fondi pensione negoziali italiani. In base ai dati diffusi da Assofondipensione, nel 2011 il numero di iscritti ai fondi negoziali era di circa 2 milioni, sostanzialmente invariato rispetto al 2010. Sul fronte dei rendimenti, in un anno contrassegnato da forte instabilità dei mercati finanziari, i fondi pensione negoziali hanno chiuso il 2011 in sostanziale pareggio, facendo registrare una performance positiva dello 0,1%. (riproduzione riservata)