ALESSANDRA CARINI

Nel Paese appassionato delle verifiche del fisco sugli scontrini dei vacanzieri è possibile che una delle storie più rocambolesche della finanza di questi anni si concluda con una semplice accusa di evasione fiscale. Già perché nel momento in cui nei giorni scorsi la Consob ha decretato che i trust che detengono il 20% del capitale della Premafin in paradisi fiscali, sono riconducibili, come molti sospettano da anni, allo stesso Salvatore Ligresti, proprietario con i figli del gruppo assicurativoimmobiliare, la costruzione messa in piedi dal finanziere siciliano viene scossa da un terremoto dalle conseguenze imprevedibili: accuse di evasione, manipolazione e false comunicazioni al mercato, complicazioni nei rapporti con le banche.
Ligresti tra pochi giorni, il 13 marzo, compie ottanta anni. E questo 2012 non porta con sé solo un compleanno decisivo. Celebra anche i vent’anni passati dall’inchiesta di Mani Pulite che lo vide protagonista. Il finanziere siciliano, allora proprietario di un impero immobiliare e assicurativo da 5.000 miliardi di lire, fu arrestato, passò quasi quattro mesi a San Vittore. Il gip Italo Ghitti respinse la richiesta di scarcerazione, anche affrontando accuse di comportamenti da Inquisizione. Dopo 116 giorni Ligresti fu ricoverato in una delle cliniche di sua proprietà, la Città di Milano e parlò: 3 miliardi di erogazioni a Severino Citaristi segretario amministrativo della Dc, 7 a Vincenzo Balsamo per il Psi, più tangenti di svariati miliardi per ottenere gli appalti.
Storie passate? Forse. Ma a chi legge le motivazioni con le quali la Cassazione respinse la richiesta di scarcerazione perché “persona adusata alla corruzione e al venale intrallazzo con pubblici amministratori e politici di rango” viene da chiedersi come abbia fatto Ligresti a rimanere fino ad oggi al centro della scena finanziaria italiana.
L’ultimo atto di questa vicenda si gioca in questi giorni di vigilia delle decisioni sulla sorte del gruppo. L’intervento a sorpresa della cordata PalladioSator, in opposizione alla soluzione concertata tra le banche creditrici, Mediobanca e Unicredit, insieme a Unipol, ha aperto un confronto sulle regole con le quali si dovrebbe procedere al salvataggio del gruppo Ligresti. E ha diviso chi sostiene che si debba lasciare al mercato, al fallimento, ai Tribunali amministrativi e forse anche penali, la chiusura della storia del suo impero, e chi sostiene che, invece vada in primis tutelato quel che resta di un gruppo che è ancora importante e strategico per l’Italia in campo assicurativo e immobiliare.
Dietro queste scelte si agitano i fantasmi di una parabola che ha visto Ligresti e il suo impero familiare protetto da un insieme di intrecci finanziari e politici che per diverse volte, negli ultimi venti anni, sono intervenuti a salvarne il destino, permettendo che i costi dello sfascio venissero pagati dai portafogli dei risparmiatori che ne avevano condiviso il finanziamento. Al centro degli intrecci c’è quel nugolo di partecipazioni messe insieme dal finanziere siciliano, non a caso ribattezzato Mister 5%, con l’ausilio della Mediobanca di Enrico Cuccia, che sono state, insieme alla Fonsai, la vera assicurazione sulla vita del suo impero, in un mondo, come quello del capitalismo della Galassia del Nord, dove la regola sovrana è quella della mutua assistenza contro ogni intervento esterno.
Una rete che oggi contempla la presenza di Ligresti negli snodi di essa: l’1,13% di Generali, il 3,8% di Mediobanca, il 5,5% di Rcs Corriere della Sera, il 4,5% della Pirelli. Qualcosa che ha fatto immaginare, qualche mese fa, nei sussulti dell’impero, un soccorso basato su una sorta di “scatola cinese” del potere. Una società che mettesse insieme queste partecipazioni, pur falcidiate dalle minusvalenze, in un veicolo da rivendere pro quota al mercato per ricavare la liquidità necessaria a andare avanti e la forza di proteggere ancora la “illustre” famiglia.
Gli intrecci finanziari hanno corso in parallelo con le protezioni politiche ed anche affaristiche che affondano le radici ben più lontano degli anni del craxismo della Milano da bere ed arrivano fino agli ultimi epigoni di esso, il berlusconismo e la Milano degli immobiliaristi. All’inizio di questo 2012 decisivo, nel pieno della crisi, Ignazio La Russa, ex ministro della Difesa del governo Berlusconi, assieme al figlio Geronimo, consigliere di Premafin, (il fratello del ministro, Vincenzo, siede nel consiglio di Fonsai) hanno fatto visita a Ligresti passando per la doppia porta blindata e il lungo corridoio che proteggono il suo ufficio a Milano. Sono loro i discendenti di quell’Antonino La Russa, padre dell’ex ministro, che è stato uno dei protettori dell’ascesa di Ligresti e uno dei protagonisti di quel gruppo di siciliani con cui Don Salvatore intreccia i suoi affari nella Milano degli anni Settanta scalando i primi gradini della sua ascesa. E’ Antonino, di Paternò come Ligresti, consigliere e legale del siciliano Raffaele Ursini che, scappando all’estero per il crack della Liquigas (ereditata dal finanziere Michelangelo Virgillito, anche lui compaesano di Paternò) lascia la preziosa quota del 15% della Sai nelle mani di Ligresti, quota che verrà aumentata con l’acquisto da un gruppo di imprenditori catanesi, i Massimino, costruttori anche loro venuti dal nulla. E’ dal bancarottiere Michele Sindona che Ligresti rileva la Richard Ginori, mettendola sotto la Sai.
Ma è all’inizio degli anni Ottanta che nasce e si consolida il legame che proietta Ligresti nel circoli del potere e della finanza e che costituirà lo “zoccolo duro” del suo impero: quello con il patron di Mediobanca e del capitalismo familiare italiano, Enrico Cuccia. E con lui che nasce un patto di ferro di mutua assistenza che fa storcere il naso ai salotti buoni, dagli Agnelli a templi della finanza come Credit e Comit. Un legame che il biografo del patron di Mediobanca, Fabio Tamburini, attribuisce non tanto alla conterraneità siciliana, o alla presunta protezione chiesta da Cuccia contro le minacce di Sindona, quanto a quella partecipazione del 7% della Sai nella Euralux, la finanziaria titolare di uno dei pacchetti decisivi per il controllo delle Generali, in tandem con Mediobanca.
Cresce negli anni un sodalizio fatto di reciprocità: in cambio dell’ingresso nei palazzi e negli snodi del potere, Mediobanca in primis, Ligresti farà da custode a pacchetti strategici e da mallevadore politico, visto che la sua amicizia con Craxi permetterà a Cuccia di dirigere la privatizzazione di Mediobanca. Mediobanca arriverà a mettersi in rotta con gli Agnelli per permettere a Ligresti di conquistare la Fondiaria, aggirando l’Opa, e costruire un impero assicurativo, anche se Cuccia non vedrà la fine dell’operazione. E il suo delfino, Vincenzo Maranghi, meno attento di lui alla sicilianità spedirà Enrico Bondi a tentare di mettere ordine nel gruppo.
Sarà questa struttura di potere a costituire la rete di sicurezza dell’impero di Ligresti, a dirigerne le ristrutturazioni, a dargli fiato finanziario. A partire dalla quotazione di Premafin in Borsa, un atto che un ex commissario della Consob, Salvatore Bragantini, definisce “una violenza” al mercato. Permessa in barba al fatto che la finanziaria fosse priva dei requisiti di tre bilanci chiusi in utile, nonostante la Consob avesse vietato le scatole cinesi, con dati di valutazione, per usare un eufemismo, poco veritieri: 1400 miliardi, 20 volte gli utili di un anno, che non si ripeterà e che l’indagine di Mani Pulite rivelerà conseguiti grazie alle vendite di palazzi ad enti pubblici propiziati da mazzette. Pochi anni dopo Premafin capitalizzerà un decimo di quei 2000 miliardi costituiti dal valore iniziale più i mezzi freschi.
Quella della spoliazione degli azionisti e del mercato è il leit motiv di un gruppo che ha potuto mantenere il controllo in famiglia a prezzo di giravolte finanziarie e ha coperto i suoi debiti, finanziato le sue imprese, gli stipendi, le attività ed anche le passioni dei tre figli eredi dell’impero, scaricando passività a valle, indebolendo la Fondiaria Sai, per tirare quattrini a monte.
Il nuovo regolamento sulle parti correlate che impone a Fondiaria, in occasione dell’ultimo aumento di capitale richiesto, di dichiarare i suoi rapporti con il gruppo, rivela che tra il 2008 e il 2010 dalle casse di Fondiaria sono usciti 500 milioni di operazioni con imprese dei Ligresti.
Cuccia però se n’è andato da tempo. Gli ultimi protettori del gruppo, da Berlusconi a Cesare Geronzi sono usciti dalla scena. Le banche che lo hanno a tutela da tempo, Mediobanca e Unicredit, sono, per uomini e ruolo nel sistema, diverse da quelle che ne hanno visto l’ascesa e devono gestire un’imbarazzante e complessa eredità in bilico tra il fisco, le perdite e il desiderio di non raccogliere solo cocci dalla rottura forse dell’ultimo vaso di Pandora del capitalismo finanziario italiano.