Con l’approvazione del Milleproroghe si concluderà un percorso che ha visto nell’ultimo anno nove mutamenti del sistema pensionistico italiano. L’ondata di cambiamenti ha tre origini. La delicata situazione dei conti dell’Inps è uno dei motivi principali: secondo i dati pubblicati lo scorso settembre dal presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale, l’Istituto presentava nel 2009 un deficit di 8,9 miliardi per la sola previdenza, ai quali andavano sommati 33,5 miliardi di euro per la componente assistenziale. Vi è poi il tema del progressivo invecchiamento della popolazione che già oggi vede circa 11,4 milioni di ragazzi sotto i 18 anni e più di 16 milioni di ultrasessantenni. Infine, le richieste effettuate nel 2011 dalla Bce e dall’Unione europea spingevano esplicitamente ad attuare provvedimenti pensionistici veloci e concreti, come l’allungamento delle età pensionabili femminili e il generale accostamento ad età vicine ai 67 anni. Da queste pressioni è nato un sistema più attento all’equilibrio dei conti che alla capacità delle nuove pensioni di soddisfare i bisogni economici dei futuri pensionati. Si è così tornati ai modelli iniziali delle previdenze pubbliche, di origine bismarckiana, secondo i quali la pensione del singolo era diretta conseguenza dei propri contributi, nel bene (lavoratori benestanti avranno pensioni adeguate) e nel male (carriere discontinue e redditi bassi produrranno pensioni inadeguate). Per poter contribuire occorre lavorare e oggi, si sa, esistono ampie difficoltà per diverse fasce di popolazione (donne, giovani, cinquantenni estromessi per presunta obsolescenza). In sostanza, la previdenza è parte integrante di un più ampio sistema di welfare, chiamato a occuparsi, contestualmente, di pensioni, di lavoro e di inclusione nel sistema produttivo. Non è peraltro casuale che l’Ocse richieda di affiancare ai provvedimenti pensionistici assicurativi («io verso per me») modelli di redistribuzione nei quali le collettività tutelino i cittadini più vulnerabili allentando il rapporto tra contributi e prestazioni. La redistribuzione è semplice quando vi sono avanzi di cassa, molto meno quando si parte da un deficit. Per questo motivo occorre individuare sistemi di protezione che non impongano spesa pubblica supplementare. Ci pare, in sintesi, poco utile continuare a richiedere agevolazioni fiscali, specie considerando lo scarso esito di quelle ad oggi offerte ai sottoscrittori di una forma pensionistica. Le vie ad oggi percorribili sembrano tre: aumentare la consapevolezza dei cittadini tramite azioni di educazione previdenziale; rendere attrattiva la previdenza complementare; aiutare i cittadini ad agire mediante meccanismi di facilitazione 1) L’educazione previdenziale è ora al centro del processo legislativo e delle attenzioni delle pubbliche amministrazioni e delle imprese. Le discussioni sembrano vertere però più su chi potrà farla che su come vada fatta. Qui ci piace ricordare che la qualità dei processi educativi può essere garantita dalla conformità alle norme di qualità Uni sull’educazione finanziaria, assicurativa e previdenziale del cittadino; norme che descrivono chiaramente requisiti, competenze e destinatari stabilendo uno stato dell’arte che limita le interpretazioni di parte (autoreferenziali o volte indirettamente e promuovere una o l’altra categorie di soluzioni) e offre modelli terzi e scientifici a maggior garanzia di utenti e operatori. 2) La previdenza complementare è davvero sottoutilizzata: solo 23 lavoratori su 100 hanno effettuato una qualche forma di investimento pensionistico, ma in pochi anni la percentuale di aderenti che ha smesso di versare è elevata e preoccupante (il 38% dei lavoratori autonomi, per fare un esempio). E i versamenti effettuati non raggiungono neppure la metà di quanto necessario per massimizzare i risparmi fiscali. Se consideriamo inoltre che i sottoscrittori avviano piani di previdenza complementare a età avanzate e che i comparti di investimento sono prudentissimi, l’esito per quei pochi lungimiranti sottoscrittori appare quasi sconfortante: le nostre stime indicano pensioni integrative future medie di circa 150 euro lordi al mese per gli uomini e 130 euro per le donne. Questo, ammesso e concesso che si richieda rendita vitalizia e non capitale. Che fare dunque? Le esperienze internazionali ci indicano diverse strade per dare vita e luce alle previdenze complementari. Tra queste, interessante è il cosiddetto modello Riester, dal nome del ministro tedesco che nel 2001 definì quanto segue: il cittadino che sceglie di sottoscrivere forme pensionistiche riceve in cambio dallo Stato agevolazioni in termini di prestazioni sociali più ampie rispetto a coloro che non compiono il dovere civico di pianificare la propria stabilità economica futura. Una seconda strada consiste nel modificare il profilo remunerativo per gli operatori, scorporando il costo connesso ai prodotti da quello connesso al servizio e rendendo trasparente al cittadino «chi sta pagando e per cosa». Dato che la previdenza complementare richiede analisi e servizi di tipo consulenziale, il servizio dovrebbe essere oggetto di remunerazione in sé. Così è stato deciso e messo in atto, tra gli altri, dall’Autorità di vigilanza inglese (fsa.gov.uk/ rdr), e da quella australiana. A nostro giudizio questa via renderebbe accessibile la consulenza a tutti i cittadini: la consulenza previdenziale è infatti un bene che occorre a tutti, non solo ai soggetti più benestanti (ossia quelli che destinano risorse economiche significative ai prodotti). 3) I meccanismi di facilitazione. Le persone faticano a prendere decisioni. Si può pertanto pensare a scelte attive obbligate che, per esempio, prevedono di esprimersi sulla previdenza complementare per regolarizzare il contratto di assunzione. Oppure a sistemi di reclutamenti automatici con libertà di uscita: si tratta di piani che inseriscono i cittadini in programmi adeguati (scelta del comparto in funzione dell’età) e capaci di modificarsi automaticamente nel corso del tempo (collegamento tra versamenti e aumenti retributivi) lasciando però libertà ai cittadini di recedere. Il fine primo, e ultimo, della pensione pubblica è quello di dare stabilità economica alla vita del pensionato, e questo non va dimenticato. Occorre dunque che il cittadino sia informato, formato e supportato nell’integrare, anche per via individuale, le prestazioni pensionistiche pubbliche. Il tema è noto. Perché allora non si passa dal sapere all’agire? Il problema è anche comunicativo. Da molti anni si continua ad affermare che la previdenza pubblica è ammalata, che bisogna fare check-up previdenziali, calcolare i gap, farsi dare una mano dalla fiscalità: i risultati sono però modesti. Non varrebbe dunque la pena di cambiare linguaggio, concentrarsi meno sui prodotti e più sulla vita dei cittadini, lasciar da parte visioni ingenue della consulenza (empatia, ascolto) e affrontare concretamente il tema della qualità del servizio offerto ai cittadini? Non si potrebbe agevolare un’educazione previdenziale efficace e non rituale e incoraggiare i modelli di qualità? In entrambi i casi, le norme di qualità Uni e Iso costituiscono uno stato dell’arte che non può essere tralasciato. Occorre, poi, innovare. E velocemente. Da perdere, ci pare, non c’è molto. L’alternativa? Procedere come se nulla stesse accadendo o cambiando. Disattendendo il celebre motto attribuito ad Albert Einstein: «Follia è fare sempre la stessa cosa e aspettare risultati diversi». (riproduzione riservata) * vicepresidente di Progetica< /p>