LA SUPREMA CORTE DELIMITA IL RUOLO DELLE SOCIETÀ IN MATERIA DI REATI DA INFORTUNI SUL LAVORO
di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti
Responsabilità dell’ente coi paletti: è quanto emerge dalla sentenza dell’11 gennaio 2023, n. 570, con cui la Cassazione, pronunciandosi in tema di responsabilità degli enti ex dlgs 231/2001 e infortuni sul lavoro, ha evidenziato la necessità di non confondere la “colpa di organizzazione” con quella della persona fisica imputata per il reato. La Suprema corte ha pertanto annullato la sentenza impugnata, la quale aveva addebitato alla società, senza provare l’effettività delle carenze organizzative contestate, i profili colposi ascrivibili all’amministratore, quale datore di lavoro tenuto al rispetto delle norme prevenzionistiche, ma non per questo automaticamente addebitabili all’ente in quanto tale.

Il caso. Nella vicenda di specie, a una spa era contestato l’illecito amministrativo di cui al dlgs 231/2001, art. 25-septies, comma 3, per il reato presupposto di omicidio colposo ai danni di un lavoratore, dovuto all’inosservanza di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e verificatosi nell’ambito della realizzazione di alcune opere edili appaltate alla suddetta società e da questa in parte subappaltate a una srl. In particolare, la spa era stata ritenuta dai giudici di merito responsabile per aver tratto vantaggio dalla condotta del reato attribuito all’amministratore unico: vantaggio consistito nel risparmio derivante innanzitutto dall’impiego, presso il cantiere, di lavoratori, tra cui la vittima dell’incidente, formalmente dipendenti dell’altra società a cui erano state subappaltate alcune lavorazioni, ma in realtà sottoposti al potere direttivo della spa, nonché dalla mancata messa a disposizione dei lavoratori medesimi di idonei mezzi di protezione individuale, con specifico riferimento ai sistemi di protezione contro le cadute dall’alto, all’omessa formazione specifica ai lavoratori medesimi in materia di montaggio/smontaggio dei ponteggi e all’assenza di un preposto a tali lavori effettivamente nominato e quindi retribuito dalla società. Dinanzi alla condanna dei giudici di merito meneghini, confermata anche in secondo grado, il difensore della società aveva così proposto ricorso per Cassazione, che è stato ritenuto dalla Suprema corte fondato.

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