di Francesco MocciLuca Zitiello

Il tema del divieto degli incentivi è oramai diventato un classico: in occasione di ogni prospettata riforma della disciplina dei servizi di investimento si invoca da parte di alcuni un intervento deciso del legislatore europeo, che bandisca per sempre quella che da più parti è considerata una pratica non sana del mercato.

Del resto, si sostiene, non sarebbe che l’ultimo atto di un processo, iniziato nel 2007 con la Mifid1, che aveva portato all’emersione degli incentivi quale forma di compenso dei distributori e proseguito con Mifid2, che aveva vietato i rebates commissionali nella gestione patrimoniale e nella consulenza indipendente e reso più stringenti i limiti di legittimità degli incentivi negli altri servizi di investimento.

A fondamento del divieto si argomenta innanzitutto che il processo distributivo ne guadagnerebbe in trasparenza, perché i clienti sarebbero finalmente in grado di distinguere il costo effettivo del prodotto dal costo dell’intermediario venditore/consulente e così decidere con cognizione di causa da chi acquistare il prodotto.

Si può però obiettare che l’obiettivo è già assicurato dall’attuale quadro normativo. La disciplina della trasparenza dei costi e oneri di un investimento, sia ex ante che ex post, prevede infatti l’obbligo per i distributori di indicare separatamente il costo del prodotto e il costo del servizio e, soprattutto, di specificare con chiarezza il quantum degli incentivi: il tutto utilizzando una tabella molto semplice, predisposta dall’Esma. Insomma, già oggi i clienti sono in grado di isolare i costi di distribuzione dei vari intermediari confrontandoli tra loro. Si può certo migliorare il meccanismo, stabilendo criteri ancora più dettagliati e uniformi per la disclosure dei costi, magari sulla falsariga di quanto avviene nel mondo bancario con la formula del Taeg, ma non pare necessario intervenire sulle varie forme di remunerazione dei distributori vietandole alcune.

Ma l’argomento più speso a sostegno del divieto degli incentivi, specie in seno alla Commissione europea, è che si abbatterebbero i costi dei prodotti, a tutto vantaggio della clientela. I produttori, infatti, non dovrebbero più considerare, nel prezzare il prodotto, la quota da retrocedere alla rete distributiva e il costo finale ne beneficerebbe. È però ovvio che vietando gli inducement i prodotti costerebbero meno, ma non è affatto detto che i clienti spenderebbero, alla prova dei fatti, meno di prima.

L’intervento del distributore, invero, andrebbe comunque remunerato: sia che questi si limiti al puro collocamento e all’assistenza post-vendita basilare, sia che associ alla distribuzione anche un’attività consulenziale, di basso o alto valore aggiunto. Non è infatti pensabile che un intermediario venda e/o raccomandi prodotti di terzi gratis, sostenendo i costi vivi e di compliance e remunerando a sua volta la propria rete senza alcuna gratificazione economica.

Nel nuovo ipotetico mondo senza incentivi questo avverrebbe attingendo direttamente dalle tasche del cliente, che si troverebbe quindi nuovamente a pagare per il prodotto e per il servizio, senza alcuna garanzia che la somma di queste due voci sia inferiore al vecchio costo del prodotto comprensivo degli incentivi. E non paiono calzanti gli esempi dell’Inghilterra e dell’Olanda, dove il divieto di incentivi, da poco introdotto, sembra aver portato un complessivo beneficio per i clienti in termini di costi: intanto sono conclusioni che andrebbero verificate nel medio-lungo periodo; inoltre, si tratta di mercati diversi dal nostro, popolati da clienti abituati ad appoggiarsi al servizio di gestione patrimoniale o al fai-da-te senza supporto consulenziale.

Del resto, investire non è semplice: i clienti al dettaglio hanno bisogno di ricevere assistenza professionale nella scelta del prodotto più adatto alle proprie esigenze, hanno bisogno di comprendere appieno le implicazioni dei loro investimenti in termini di rischio. Da anni il legislatore europeo e le autorità di vigilanza, con la Consob in testa, spingono perché al collocamento si abbini il servizio di consulenza: ne rappresenta una dimostrazione la stessa disciplina degli incentivi dettata dalla direttiva Mifid2, secondo cui gli inducement sono ammissibili se il servizio complessivo reso al cliente, spesso grazie alla consulenza, presenti un tangibile valore aggiunto per la clientela.

Desiderare che i clienti, per spendere meno, decidano di fare di testa loro, senza avvalersi della consulenza degli intermediari, potrebbe rappresentare un pericolo. E ancora: eliminando gli incentivi si correrebbe forse il rischio di spingere gli intermediari a ricercare altrove redditività, restringendo il catalogo prodotti e limitando la scelta ai soli prodotti di gruppo. Insomma, prima di introdurre divieti, occorrere riflettere con attenzione se non si possano migliorare le regole.

*partner e **managing partner Zitiello Associati
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