Negli ultimi anni il peso degli investitori istituzionali è cresciuto per le quotate italiane e quella che ai tempi di Enrico Cuccia era una presenza quasi marginale oggi è diventata determinante per l’esito delle partite finanziarie. Se questo vale certamente per public company come Unicredit, nemmeno chi vanta uno zoccolo duro di soci di riferimento come le Generali può prescindere dall’orientamento dei fondi negli appuntamenti della propria vita societaria. In particolare, nell’assemblea che il prossimo 29 aprile sarà chiamata a eleggere il nuovo consiglio di amministrazione della compagnia il voto degli istituzionali potrebbe rivelarsi decisivo. Dopo l’uscita dal board del vicepresidente e secondo azionista Francesco Gaetano Caltagirone e di Romolo Bardin (rappresentante della Delfin di Leonardo Del Vecchio) la prossima tappa del conflitto sarà con ogni probabilità la presentazione delle due liste che ad aprile si contenderanno i posti di maggioranza. Nel frattempo sia il patto di sindacato (oggi giunto oltre il 16%) che Mediobanca (17,2%) potrebbero incrementare le partecipazioni portandosi in prossimità della soglia d’opa. Quanto agli altri soci, gli occhi del mercato sono puntati su chi non si è ancora espresso, a partire dalla famiglia Benetton che non ha deciso come schierare il proprio 3,97%. Anche con questi arrotondamenti però lo scenario più probabile è quello di un testa a testa e solo il voto degli istituzionali potrà evitare l’impasse.

In base ai dati forniti dalle stesse Generali, oggi i fondi hanno in mano il 34,75%, la fetta più significativa del capitale se si tiene conto che i soci storici hanno il 31,38% e il retail è fermo al 22,59%. I nomi in campo sono quelli con cui da tempo ormai il mercato italiano ha famigliarizzato, dai grandi asset manager come BlackRock, Dimensional e Vanguard fino ai fondi sovrani come Norges Bank senza dimenticare grandi istituzioni finanziarie europee come Ubs, Crédit Agricole o Deutsche Bank da sempre attente alle blue chip del mercato tricolore. Lo zoccolo si è consolidato negli ultimi anni visto che il peso e la diversificazione geografica degli istituzionali si sono notevolmente accentuati: un intermediario su tre è estero e gli Usa fanno la parte del leone (8,57%), seguiti da Francia (6,9%), Gran Bretagna (2,96%), Germania (1,28%) e Cina (0,15%). Il maggior peso specifico rispetto al passato non è tuttavia l’unica novità. Da silent investors i fondi stanno diventando soggetti sempre attivi nella vita societaria delle grandi quotate. Lo dimostrano le cronache assembleari in cui i sorpassi o i contrasti tra azionisti e board sono sempre più frequenti. Un pungolo che ha spinto le società a potenziare le strategie di engagement con la consulenza dei proxy advisor. Oggi insomma pensare di costruire una corporate governance senza il coinvolgimento degli istituzionali sarebbe del tutto anacronistico.

In questo contesto il ruolo di cinghia di trasmissione tra i grandi investitori e le quotate è principalmente svolto da Assogestioni, che negli ultimi anni ha assunto un peso sempre più rilevante nelle partite finanziarie. Nata nel 1984 per iniziativa delle prime società di gestione, l’associazione presieduta oggi da Tommaso Corcos (amministratore delegato di Fideuram-Intesa Sanpaolo Private Banking, che nel 2016 ha raccolto il testimone da Marcello Messori e siede da sei anni al vertice) rappresenta oltre 290 intermediari, tra cui la maggior parte delle sgr italiane e degli investment manager stranieri attivi in Italia, oltre a banche e assicurazioni che operano nell’ambito della gestione individuale e della previdenza complementare. In assemblea ogni associato ha diritto a un numero di voti proporzionale all’ultimo contributo versato. Le cifre non sono pubbliche ma lo statuto spiega che il contributo è suddiviso in una quota fissa e una variabile calibrata sul patrimonio raccolto o gestito alla fine dell’anno precedente. Detto in altri termini, l’influenza è commisurata al peso economico e le classifiche stilate periodicamente dall’associazione sono buone approssimazioni dei suoi delicati equilibri assembleari. I grandi elettori sono insomma Intesa e per l’appunto la stessa Generali, che già da sole rappresentano una fetta significativa del mercato italiano, seguite da Anima, Poste, Pramerica, Mediolanum e Azimut. Come si muoverà Assogestioni in vista dell’assemblea del 29 aprile? Se finora l’associazione ha sempre presentato una lista, questa volta la mossa non è scontata. Con una seconda formazione in campo oltre a quella promossa dal cda la partita non sembrerebbe particolarmente favorevole ai gestori, che – si mormora – potrebbero decidere a sorpresa di fare un passo indietro. Oltre alle ragioni di convenienza ci sono considerazioni di carattere tattico che potrebbero incidere sulla decisione: senza una terza lista il voto degli istituzionali potrebbe incanalarsi più facilmente verso una delle due formazioni in lizza per la maggioranza favorendo in tal modo un risultato più netto. Per chi propenderà la scelta? Quello che per ora si può dire è che lo standing delle candidature e la credibilità della proposta industriale avranno un peso decisivo. (riproduzione riservata)
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