L’appoggio dato a Orcel in Unicredit conferma l’attivismo di Del Vecchio, che adesso potrebbe formare un asse con il nuovo ceo
Mentre continua la scalata a Mediobanca, gli occhi sono su Generali
di Luca Gualtieri
Il primo passo nel salotto finanziario italiano lo ha compiuto nel 1992. Leonardo Del Vecchio era già l’uomo più ricco d’Italia, possedeva una multinazionale quotata a Wall Street e stava seduto su 500 miliardi di lire di ricavi annui. A introdurlo nel Credito Italiano si dice sia stato il presidente Lucio Rondelli per conto di Enrico Cuccia. La ragione? Il fondatore di Mediobanca non voleva rassegnarsi alla perdita di influenza sulle tre Bin privatizzate e per il Credit andava pianificando un fedele nocciolo di privati. La Leonardo Finanziaria fu della partita e partecipò a quello che i giornali battezzarono lo Sbarco dei mille, ossia la prima privatizzazione bancaria dopo la legge Amato del 1990. Nella compagine azionaria del Credit entrarono volti noti e meno noti, dai Pesenti ai Coin, dai Bastianello ai Benetton senza dimenticare Achille Maramotti che con Del Vecchio avrebbe fatto asse per anni rappresentando gli interessi dei soci italiani. Cosa ci faceva nel salotto buono un self made man allergico ai rituali del capitalismo di relazione? Qualcuno mormora di uno scambio di favori con Rondelli che era appena entrato nel cda di Luxottica per stemperare le perplessità degli americani sulla governance. Ma più probabilmente a guidare Del Vecchio nella decisione è stato quel fiuto che nella sua fortunata carriera raramente lo ha tradito: investire in un istituto di credito all’inizio degli anni Novanta poteva rivelarsi un affare.

In questi giorni iniziative ben più recenti hanno stimolato la curiosità della comunità finanziaria. Si discute molto per esempio dell’appoggio dato da Del Vecchio ad Andrea Orcel. La candidatura dell’investment banker romano al vertice di Unicredit è stata sostenuta dall’imprenditore che ha fatto asse con la Cariverona di Alessandro Mazzucco e la Crt di Giovanni Quaglia per convincere il board e il presidente in pectore Pier Carlo Padoan. Sul tavolo della trattativa sarebbe arrivata perfino una minaccia neppure troppo velata: se il consiglio di amministrazione di Unicredit non avesse avallato la nomina di Orcel, i soci italiani avrebbero presentato una lista alternativa per spaccare l’assemblea. Una prova di forza che, complice la crisi di governo e l’appoggio dei fondi internazionali oggi ben posizionati nel capitale di Unicredit, avrebbe piegato le ultime resistenze e spianato la strada alla candidatura. Mercoledì 27 gennaio è arrivato l’annuncio ufficiale: Orcel sarà il prossimo ceo.

Come si spiega un endorsement così deciso? Ancora una volta con il fiuto per gli affari, suggeriscono i ben informati. Del Vecchio stima Orcel che ha conosciuto oltre 20 anni fa all’atto di nascita di Unicredito. Del banker romano apprezza non solo il talento professionale, ma anche la forte personalità che oggi suona come garanzia d’indipendenza. Un’indipendenza necessaria, si ritiene al vertice di Delfin, per gestire con le dovute cautele il dossier Montepaschi e soprattutto per restituire smalto alla banca. Orcel insomma potrebbe gratificare finalmente gli azionisti dopo che, solo nell’ultimo anno, il titolo Unicredit ha bruciato il 40% del valore arrivando a quotare 0,3 volte il patrimonio tangibile contro lo 0,53 di Intesa Sanpaolo. Non si esclude peraltro che nella lista del board prevista per marzo spunti un amministratore espresso indirettamente da Delfin, per monitorare più da vicino le nuove strategie. Ancora una volta insomma a guidare le scelte di Del Vecchio e del suo fidato Francesco Milleri è la volontà di massimizzare l’investimento.

Di investimenti nel salotto finanziario italiano del resto Del Vecchio ne sta collezionando parecchi. Mese dopo mese prosegue per esempio la silenziosa scalata a Mediobanca di cui Delfin possiede già il 13% ed è autorizzata a comprare fino a ridosso del 20%. Gli acquisti sono iniziati nel settembre 2019 e da allora non hanno mai subito interruzioni. Nuovi pacchetti potrebbero arrivare molto presto visto che, per esempio, Vincent Bolloré sta smontando la partecipazione della Financiere du Perguet (appena scesa al 2,76%) e la permanenza di altri soci storici nel capitale non è scontata. Sul fronte della governance però domina la prudenza, non solo perché la Bce e il mercato non gradirebbero schermaglie tra il primo socio e il board, ma anche perché su alcune partite non è esclusa una convergenza di vedute tra Del Vecchio e il ceo Alberto Nagel. Si mormora per esempio che, se il banchiere fosse stato designato al vertice di Unicredit dopo il passo indietro di Jean Pierre Mustier, l’imprenditore non gli avrebbe negato l’appoggio.

L’investimento monitorato più attentamente è però quello in Generali, di cui Del Vecchio è azionista assai attivo da 14 anni e detiene oggi il 4,8% del capitale. Il board presieduto da Gabriele Galateri è entrato nell’ultimo anno di mandato e si accinge ad aprire il cantiere del nuovo piano industriale. In sella c’è Philippe Donnet che nei giorni scorsi, dopo l’uscita del general manager Frédéric de Courtois e di Timothy Ryan, ha deciso di assumere il diretto riporto delle funzioni strategiche. Per il ceo (che oggi gode del sostegno del primo socio Mediobanca e del mercato) i prossimi mesi saranno impegnativi non solo per il lavoro sul nuovo progetto strategico ma anche per l’evoluzione della partita Cattolica. A Verona il clima si sta surriscaldando, con Ivass e Consob in pressing, confermando così le perplessità iniziali di alcuni soci del Leone. Soci di peso che già in queste prime settimane dell’anno avrebbero iniziato a ragionare sul rinnovo del 2022. Se Francesco Gaetano Caltagirone continua ad arrotondare la quota (oggi è al 5,4%, ma potrebbe spingersi oltre il 7%), il mercato si interroga sulle mosse di Del Vecchio. Gli obiettivi di Mister Luxottica non sono un mistero e, ancora una volta, puntano dritto ai fondamentali dell’investimento: la mia idea è «riportare Generali al ruolo di leader che aveva nel mercato assicurativo europeo alla fine degli anni 90 e che poi ha perso», aveva dichiarato alle agenzie di stampa qualche mese fa. Queste ambizioni potrebbero saldarsi con la richiesta di una governance più plurale condivisa da diversi azionisti, soprattutto dopo l’ultima modifica dello statuto che ha introdotto la lista del cda. Va da sé che la partita andrà giocata con grande cautela, non solo perché, come spesso ribadisce il Copasir, bruschi ribassi del titolo Generali potrebbero stimolare raid ostili, ma anche perché iniziative unilaterali potrebbero non piacere ad altri player del mercato, come Intesa Sanpaolo. Creare consenso attorno a una rivisitazione della governance non sarà insomma semplice, ma c’è chi ritiene che un pezzo dell’establishment finanziario italiano potrebbe tifare per Del Vecchio. A partire dall’Unicredit di Andrea Orcel. (riproduzione riservata)
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