Volatilità e rotazione dei mercati nel 2020 hanno offerto ai money manager diverse occasioni. Ma l’ondata di riscatti verificatasi nei primi mesi dell’anno ha limitato le risorse da investire. Così soltanto il 37% dei comparti ha battuto gli indici
di Paola Valentini

Nel 2020 le strategie di investimento più semplici si sono rivelate anche le più efficaci: non vendere nei momenti di panico e cogliere le occasioni dei ribassi, a maggior ragione quando questi si manifestano in modo repentino come è accaduto allo scoppio della pandemia. Tra fine febbraio e metà marzo 2020, per citare solo un caso, l’indice Ftse Mib di Piazza Affari ha perso oltre il 43%. Ma dai minimi il guadagno nel resto dell’anno è stato ben superiore per chi ha investito nel momento peggiore, +57%, perché lo shock della pandemia ha scatenato in poche sedute una notevole ondata di vendite, seguita poi da un rally che è proseguito per il resto dell’anno, prima grazie alle big-tech e poi, sul finale, con i titoli value. L’anno per le borse sarà ricordato per la forte volatilità insieme alle rotazioni settoriali.
Ma navigare in questi mercati non è stato facile, anche perché il turbolento 2020 è arrivato dopo un 2019 che invece era stato brillante per gli investitori. Un cambio drastico di scenario che nella sua imprevedibilità ricorda per la magnitudo dei crolli la grande crisi del 2008, la Brexit del 2016 o la bolla Internet del 2000, anche se allora, a differenza di oggi, la correzione era stata provocata da fattori endogeni alla finanza e alla politica.

Inoltre i ribassi hanno colpito tutti i settori, invece l’alta marea della fase rialzista ha sostenuto in una prima fase i titoli legati alla farmaceutica, all’economia digitale e alla trasformazione green, penalizzando finanziari e settori più value come gli energetici. Ma da novembre in avanti, in concomitanza con l’arrivo dei primi vaccini anti-Covid, è scattata una improvvisa rotazione settoriale che ha dato la rivincita ai titoli ciclici, a scapito dei tecnologici, anche se un recupero completo ancora non si è ancora avuto. Senza dimenticare l’andamento del dollaro che si è indebolito perdendo il 9% circa rispetto all’euro, penalizzando gli investitori europei in asset Usa. In questo contesto, proprio grazie al traino dei titoli legati alle nuove tecnologie e alla sanità e a fine anno alle azioni più legate al ciclo economico, l’indice delle borse mondiali Msci World ha chiuso il 2020 con un rendimento di oltre il 12,4% che però diventa circa il 5,7% in euro. L’azionario statunitense (Msci Usa) ha fatto poco più del 10% in euro, mentre le borse europee sono rimaste più indietro per via della maggiore esposizione ai titoli delle banche e dei petrolieri e a un minor peso di settori legati alla stay-at-home economy. Il Msci Europe è sceso del 3,6%, con il Ftse Mib di Piazza Affari che ha limitato i danni cedendo sul finale il 5,4%. Meglio è andata alla Germania il cui indice Dax 30 ha segnato da inizio anno il 3,5% ed è stato l’unico in Europa ad aver raggiunto i massimi grazie alla sua economia forte e al suo ruolo guida nella ripresa post pandemica.

Questo scenario ha messo non poche difficoltà ai gestori attivi che hanno dovuto navigare in giornate dominate da alta volatilità dopo la calma piatta del 2019. Inoltre i money manager hanno patito anche l’impostazione molto cauta dei risparmiatori che hanno preferito mantenersi liquidi per paura di investire e anche per motivi precauzionali di fronte all’emergenza della pandemia. Non a caso la raccolta dei fondi comuni nel 2020 (dati a fine novembre) si è attestata a 16 miliardi di euro, in aumento dai 4,6 miliardi del 2019, ma sicuramente meno di quanto tassi bassi e rendimenti risicati sui bond potevano far pensare a inizio anno. E soprattutto nei mesi più bui della prima ondata del virus i sottoscrittori dei fondi hanno riscattato oltre 12 miliardi privando quindi ai gestori risorse che avrebbero potuto investire quando i mercati erano ai minimi. I dati Abi segnalano che la liquidità nei conti delle banche italiane è salita a oltre 1.714 miliardi a fine novembre, con un aumento rispetto a novembre 2019 di 109 miliardi. Questa massa di cash potrebbe essere incanalata anche nel risparmio gestito, ma per far uscire le famiglie dalla sicurezza della liquidità senza dubbio conta molto la capacità di offrire rendimenti all’altezza delle aspettative di una gestione professionale, oltre alle commissioni che sono un elemento sul quale cui i sottoscrittori ora possono avere controllo dato che i rendiconti Mifid in vigore dal 2018 presentano nel dettaglio i costi che gravano sugli investimenti. Ma accanto ai rendimenti e ai costi un punto importante è la capacità di battere il benchmark. E la volatilità di un anno come il 2020 ha offerto diverse occasioni ai gestori attivi per essere premiati dei propri sforzi per battere il mercato. E nel contempo per contrastare la forte crescita dei fondi passivi a basso costo.
Storicamente la quota dei gestori che superano il benchmark si è attestata attorno al 20%. Hanno fatto eccezione il 2009, il 2012, il 2013 e il 2019, quando la percentuale di gestori sopra l’indice è stata superiore (circa il 40%) perché in quegli anni azioni e bond erano cresciuti avvantaggiando i fondi italiani, tradizionalmente agganciati all’indice. E nel 2020 la storia si è ripetuta: il 37% dei fondi di diritto italiano ha battuto il mercato di riferimento. È quanto emerge dall’analisi di MF-Milano Finanza sui comparti italiani in base ai rendimenti 2020 (dati Fida) messi a confronto con gli indici di mercato. L’analisi è stata condotta su sette delle principali e più popolate categorie, quattro azionarie e tre obbligazionarie. Dal 2000 i gestori dei fondi di diritto italiano devono calcolare e rendere pubblica ogni settimana la performance a 12 mesi del benchmark scelto, ma quest’anno non è stato possibile reperire questa informazione (sarà comunque presente nei bilanci dei fondi pubblicati entro febbraio) e quindi sono state messe a confronto le performance con gli indici di mercato più rappresentativi di ciascuna specializzazione esaminata.

Ma andando a esaminare le varie categorie si nota che i risultati sono divergenti. Ad esempio tra gli azionari Italia il migliore ha limitato le perdite al -0,15%. È il Fondersel Pmi, storico fondo di Ersel (è nato nel 1990) gestito da Marco Nascimbene e Carlo De Vanna. «Continuiamo a mantenere una posizione lunga sugli industriali, dove preferiamo Fca in vista della fusione con Psa. Siamo invece prudenti sul settore bancario visto l’ulteriore rinvio relativo al pagamento dei dividendi; preferiamo in ogni caso i possibili target di acquisizione come Banco Popolare e Popolare Sondrio», spiegano i due gestori di Ersel. Fra le utilities «abbiamo ricomprato Enel, Hera e Snam Rete Gas, che preferiamo a Terna, e abbiamo incrementato Raiway. Restiamo inoltre sottopeso sul settore petrolifero e, fra le assicurazioni, su Cattolica in attesa dell’aumento di capitale a cui preferiamo Unipol Group», proseguono Nascimbene e De Vanna. Fondersel Pmi ha chiuso il mese di dicembre con una quota investita intorno al 105% di cui un 56% circa di small cap: «In particolare abbiamo aumentato il peso di Saes Getters risparmio e delle municipalizzate e abbiamo partecipato all’ipo di Eviso, società tecnologica con ottime possibilità di crescita», rivelano i due money manager. Fondersel è un fondo Pir, una tipologia di comparti che dopo lo stop del 2019 e del 2020 ha tutte le carte in regola per riprendere la crescita registrata negli anni passati.
Anche tra gli azionari Europa si mette in evidenza un fondo con oltre 20 anni di storia, Anima Selezione Europa, gestito dal team composto da Lars Schickentanz, Mathias Domini e Pierluca Beltramelli, con una performance dell’1,58% contro il -3,62% dell’Msci Europe. Gli investimenti nel mercato europeo «riflettono un approccio più costruttivo sui segmenti più ciclici. Preferiamo il settore dei materiali supportato dagli investimenti pubblici, specialmente in infrastrutturale. Il posizionamento sul settore finanziario è passato da sottopeso a neutrale. Abbiamo inoltre preso profitto sulla tecnologia, chiudendo dopo molto tempo il sovrappeso. Trasversalmente ai settori, infine, il tema dei dividendi, oggi snobbato, tornerà ad avere rilevanza nel 2021», spiegano i gestori di Anima.

Gli specializzati a Wall Street vedono in primo piano l’Interfund Equity Usa Advantage di Fideuram Am con il +39%, rispetto al +10% dell’indice Msci Usa in euro (il fondo è in delega a Morgan Stanley Im), seguito da Bnl Azioni America di Bnp Paribas Am con il +24,5% gestito da Nicholas Watts. «L’entità del rimbalzo dipenderà da quanto velocemente la spesa al consumo tornerà ai livelli ante pandemia. A differenza della crisi finanziaria globale, quando le oscillazioni degli investimenti societari trainavano il pil, ora tocca alla domanda dei consumatori», sottolinea l’outlook sul 2021 di Bnp Paribas Am.
Tra gli obbligazionari, vera spina nel fianco per gli investitori data la scarsità di rendimenti, hanno dato buona prova, tra i fondi governativi che investono in titoli con durata tra uno e tre anni, l’Amundi Obbligazionario Breve Termine (+2,43%), tra gli obbligazionari globali il Pramerica Obbligazioni Globali (+1,2%) e tra gli high yield il Fonditalia Bond Global High Yield di Fideuram Am con il +4,8%. Senza dimenticare che alcune sgr sono specializzate nei fondi a rendimento assoluto (come Azimut) e non hanno, quindi, benchmark. (riproduzione riservata)

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