Pagina a cura di Tancredi Cerne
La pandemia riporta a casa la produzione estera. Ma non in Italia. Durante i mesi del lockdown il 94% delle imprese di tutto il mondo ha dovuto fare i conti con uno spettro finora sconosciuto: l’interruzione della supply chain. Un elemento distruttivo per la filiera produttiva delle aziende, avvertito tanto più in alcuni settori come quello dei macchinari industriali, dell’It, delle telecomunicazioni e dell’energia. Il risultato è stato quello di un radicale ribaltamento delle teorie orientate alla delocalizzazione produttiva con nuovi piani di breve e medio termine per riportare in patria gli anelli strategici della catena di approvvigionamento. Lo sanno bene i 1.181 top manager provenienti da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Italia che hanno condiviso con Euler Hermes le proprie esperienze rispetto all’interruzione delle catene di fornitura legata all’avvento del Covid, oltre ai piani per renderle più resilienti. Si scopre così che entro i prossimi 6-12 mesi, il 55% delle imprese cercherà di ottimizzare la propria catena di approvvigionamenti limitando la provenienza delle merci ai tre principali Paesi con cui intrattiene già delle relazioni commerciali consolidate. Una percentuale che sale addirittura al 62% alzando l’orizzonte temporale al medio-lungo termine. Ma c’è anche chi sembra intenzionato a fare scelte più radicali. Il 20% delle aziende sta pensando infatti di mettersi al riparo da rischi futuri limitando la provenienza dei propri fornitori soltanto al proprio Paese. «Alcune imprese preferiscono cercare nuovi fornitori in patria e, in questo senso, gli Stati Uniti sono economicamente i più patriottici», hanno spiegato gli analisti di Euler Hermes. «Questo non vuol dire girare le spalle al fornitore estero ma potrebbe legarsi al tentativo di contenere i costi in tempi di grande incertezza e dopo uno shock senza precedenti. Il miglioramento dei margini viene infatti citato come il motivo più comune per cercare nuovi fornitori». Ma l’avvento del Covid non segnerà la fine della globalizzazione. Stando ai dati raccolti da Euler Hermes tra i manager internazionali che hanno partecipato all’inchiesta, sembrerebbe infatti che soltanto il 15% di loro stia considerando l’opzione del reshoring ovvero del rimpatrio degli impianti produttivi attualmente dislocati all’estero. «Circa la metà delle aziende intervistate pensa di spostare gli attuali siti di produzione a medio e lungo termine, ma solo il 10-15% prende in considerazione il trasferimento della produzione nel proprio paese d’origine». Il 30% starebbe valutando il nearshoring, ovvero il trasferimento della produzione in un Paese vicino al proprio, soprattutto all’interno della stessa unione doganale o accordo di libero scambio. Se alcuni puntano a cercare fornitori di migliore qualità, aumentare il fatturato e i margini, o ridurre i ritardi migliorando la gestione delle scorte, un terzo delle aziende francesi è decisa a riportare in patria la produzione per creare nuovi posti di lavoro all’interno del Paese. E l’Italia? Il timore principale degli imprenditori di casa nostra riguarda l’aumento dei costi di produzione. Un sentiment in parte legato alla percezione di un andamento dei salari che cresce più velocemente della produttività, danneggiando la competitività. Si scopre così che soltanto il 3-6% delle imprese italiane starebbe valutando la possibilità di un reshoring. Un dato ben inferiore rispetto alla media degli intervistati (10-15%). «Questo indicatore potrebbe essere correlato alla percezione, da parte delle aziende, di debolezze strutturali nei settori delle infrastrutture e dell’istruzione in Italia, nella fragilità del sistema bancario e nella relativamente elevate imposte sulle società», hanno spiegato gli esperti di Euler Hermes.

A venire in aiuto degli imprenditori, ancora una volta è stata e sarà la tecnologia, principale alleato in tempi di pandemia. I risultati dell’indagine hanno mostrato infatti che le aziende altamente digitalizzate hanno adottato un numero notevolmente più alto di misure per mitigare le interruzioni delle catene di fornitura rispetto a quelle meno digitalizzate. I dati parlano chiaro: il 57% delle imprese ad alta digitalizzazione ha fatto ricorso a strategie di hedging contro il 43% di quelle meno digitalizzate. Non solo. Il 47% delle prime ha migliorato la propria comprensione delle catene di fornitura rispetto al 33% delle seconde e il 39% ha rafforzato la due diligence Esg (ossia la valutazione della affidabilità dei potenziali partner sotto l’aspetto della sostenibilità) sui fornitori propri rispetto ad appena il 14% delle aziende meno digitalizzate. «Aspetti tradizionali come costi di produzione, qualità e problemi di trasporto continueranno a guidare le decisioni sulla supply chain, ma le aziende sembrano preoccuparsi anche del rischio ambientale, anticipando un maggiore controllo e un accorciamento delle catene di fornitura meno conformi ai requisiti di esg», ha spiegato Alexis Garatti, capo studi economici di Euler Hermes. «Il reshoring potrebbe avvenire a condizione che siano previsti degli incentivi adeguati. Secondo il 17% delle aziende che non stanno pianificando una riorganizzazione delle catene di fornitura, la misura più efficace per aiutarle a migliorarne la resilienza sarebbero proprio gli incentivi fiscali nazionali, per riportare un po’ di produzione a casa».

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