Le compagnie di assicurazione captive create dalle grandi imprese italiane all’estero per coprire parte dei loro rischi sono pronte a tornare in Italia e chiedono all’Ivass, e se necessario al legislatore, di rivedere la normativa per rendere possibile il rimpatrio. In ballo ci sono circa 1.500 società captive solo nell’Unione europea e se si guarda ai premi assicurativi complessivi che fanno capo a imprese della Penisola la stima è di circa 1,5-2 miliardi di euro. Somme che se tornassero in Italia potrebbero di sicuro essere utili anche alle casse dell’erario. Ma non solo.

Le stesse aziende sarebbero pronte a riportare in Italia queste partecipate semplificando le proprie strutture societarie. «Si tratta di società di assicurazione e riassicurazione captive che grandi gruppi italiani hanno creato per autogestire una parte dei loro rischi, fino ad un tetto massimo al quale possono fare fronte senza difficoltà per responsabilità civile per esempio o per la business interruption», spiega Alessandro De Felice, presidente di Anra, l’associazione nazionale dei risk manager e deo responsabili delle assicurazioni aziendali. Per fare qualche nome in ballo ci sono aziende come Enel, Eni, o Saipem, passando per Prysmian (di cui lo stesso De Felice è chief risk officer), ma anche Pirelli o Amplifon, che negli ultimi anni hanno tutte creato le proprie compagnie assicurative captive oltre il confine nazionale, in Paesi come la Svizzera, l’Irlanda, il Lussemburgo o il Belgio.

«Una scelta che a differenza di ciò che comunemente si pensa non è determinata da vantaggi fiscali, perché in ogni caso le imprese pagano in Italia la differenza tra le aliquote degli altri Paesi e quelle italiane, annullando ogni possibile beneficio fiscale», spiega De Felice, aggiungendo che, «la motivazione è invece esclusivamente regolamentare». Perché in Italia non c’è una normativa semplificata che tenga conto del fatto che queste imprese, benché siano a tutti gli effetti compagnie di assicurazione, non vendono polizze al pubblico ma assicurano o riassicurano esclusivamente una parte dei rischi delle imprese dalle quali sono controllate. «Vincoli burocratici, di reportistica e amministrativi che rendono di fatto impossibili aprire questo tipo di società in Italia», aggiunge il presidente di Anra e «per trovare una possibile soluzione abbiamo avviato un tavolo di confronto con l’Ivass, l’autorità di controllo del settore che sembra molto interessata», spiega. Il ritorno di questi capitali in Italia, del resto, non solo avrebbe benefici sull’erario visto che, a quel punto, l’intera tassazione avverrebbe in Italia ma ci sarebbero anche un ritorno di lavoratori nel Paese, nonostante queste strutture siano in genere molto leggere. Non solo. L’Italia è stata finora piuttosto svantaggiata nei confronto di altri Paesi se si guarda al riassetto delle assicurazioni in conseguenza della Brexit. Nessuna compagnia inglese che ha aperto nuove sedi nell’Unione Europea dopo l’uscita del Regno Unito ha scelto infatti la Penisola come possibile approdo.

A questo punto una regolamentazione delle compagnie captive più leggera, che tenga conto delle peculiarità di queste imprese, non solo potrebbe essere utile per riportare in Italia i premi assicurativi e i lavoratori delle società italiane che oggi operano oltreconfine ma potrebbe attrarre in Italia anche imprese di altri Paesi come è stato finora per il Belgio o il Lussemburgo. Resta però da capire se, per eliminare gli ostacoli presenti oggi, può bastare un intervento regolamentare dell’Ivass o se ci sia bisogno di una discesa in campo anche del legislatore, ma in ogni caso i benefici di una modifica sembrano essere evidenti. (riproduzione riservata)

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