di Fabio Pammolli

Visto che anche una quota significativa della spesa per sanità, assistenza e non autosufficienza riguarda gli over 65, non si è lontani dal vero se si stima che il welfare anziano costi allo Stato una percentuale superiore al 24% del Pil.

Le proiezioni della Ragioneria generale dello Stato sulle variabili demografiche ed economiche di sfondo e sui fattori fisiologici di crescita della spesa per sanità e long term care segnalano che questa incidenza aumenterà, accompagnando l’invecchiamento dei baby boomers, sino a superare il 28% entro il 2040. Si tratta, però, di stime ottimistiche, specie quelle sulla produttività e quelle sui tassi di attività e di occupazione, che più che compenserebbero la diminuzione del peso degli attivi. Altri scenari, più prudenti, rendono verosimile un’incidenza superiore al 30 per cento.

Promesse sbagliate questi numeri danno la misura del debito implicito che lo Stato contrae con gli attivi di oggi: gli occupati finanziano la spesa per il welfare anziano con imposte e contributi obbligatori e si aspettano, legittimamente, che gli attivi di domani generino entrate fiscali tali da garantir loro parità di trattamento.

Purtroppo, quella dello Stato sulle prestazioni del welfare del futuro è una promessa non credibile e non sostenibile per l’economia.

La promessa non è credibile, vista la situazione dei conti pubblici. Anche nelle proiezioni più favorevoli, per neutralizzare gli aumenti di spesa previsti per pensioni, sanità e assistenza servirebbero, per i prossimi dieci anni, avanzi primari crescenti a un tasso annuo compreso tra l’1,5 e l’1,8 per cento. Sempre che — come è stato per quota 100 — non arrivi la politica a peggiorare il quadro, per mostrarsi generosa con le coorti che, di volta in volta, si avvicinano alle soglie contributive e ai requisiti anagrafici di pensionamento necessari per la sostenibilità di lungo periodo del sistema.

Il nodo del debito ma quella delle pensioni di Stato è anche una promessa non sostenibile per gli operatori economici. Il cuneo dei contributi rimarrebbe su livelli destinati a deprimere gli investimenti, l’occupazione e la crescita. Ogni miraggio trova le proprie Sirene, e non è un caso che il dibattito politico sia animato da coloro che invocano un sempre maggior ruolo dell’Inps. Gli esiti, però, sarebbero infausti. Ogni anno, per ciascun anziano, lo Stato spende in media circa 30.200 euro per pensioni, sanità e prestazioni assistenziali. A fronte di questo dato, ciascun occupato porta sulle proprie spalle un fardello che, in media, è poco meno di 18 mila euro, pari a circa il 64% del Pil pro capite. Questa incidenza, ben più alta della media europea, risente di più fattori: il peso dominante del finanziamento a ripartizione; l’età effettiva di pensionamento; la generosità, anche nel sistema contributivo, delle regole di calcolo delle pensioni, con tassi di sostituzione che rimangono tra i più elevati nell’area Ocse; i bassi tassi di partecipazione al mercato del lavoro; un tasso di disoccupazione più elevato della media Ue; livelli di produttività bassi e stagnanti.

La verità è che le pensioni pubbliche tengono in trappola l’economia. I contributi previdenziali comprimono i salari netti, pesano sui prezzi relativi, sulla competitività delle produzioni più esposte alla concorrenza di costo e sono, di per sé, un ostacolo per la riconfigurazione del sistema economico verso nuove attività, l’attrazione di capitale umano qualificato nei settori e nelle mansioni a più alto contenuto tecnologico e a più elevato valore aggiunto.

Al contrario di quanto è stato teorizzato con il varo di quota 100, lo stato dell’economia e le dinamiche della demografia fanno sì che ogni abbassamento dei requisiti anagrafici di pensionamento, lungi dal generare lavoro per i giovani, concorra a divorarselo, schiacciandolo sotto il peso dei contributi o sotto quello, altrettanto letale, dei disavanzi necessari per tenere in equilibrio i conti dell’Inps.

I pilastri ingessati non sorprende che le promesse sul futuro del pilastro a ripartizione risultino poco credibili e attrattive anche per coloro che un lavoro, nonostante tutto, lo hanno. Prima o poi, il montante pensionistico dovrà tener conto sì dei contributi versati, ma in base a un rendimento percentuale annuo che dovrà ancorarsi, senza correttivi benevoli, alla crescita del Pil: proprio quella crescita che l’eccesso di finanziamento a ripartizione ostacola e comprime.

La generosità delle pensioni pubbliche e il cuneo dei contributi sono divenuti nemici del lavoro e del futuro dei giovani. Per tornare a crescere, certo, intervenire sulle pensioni non basta. Tuttavia, se non sapremo disegnare un sistema in cui tutte le prestazioni del primo pilastro, anche quelle acquisite, sono riviste regolarmente per tener conto degli andamenti della demografia e dell’economia, se non sapremo ridimensionare la componente a ripartizione lasciando più spazio al libero operare sui mercati dei fondi pensione del secondo e del terzo pilastro, la crescita di sicuro non ci sarà, né mai si manifesteranno, miracolosi e salvifici, gli scenari di poderosa ripresa di produttività e competitività che la politica continua a immaginare per il futuro del Paese.

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