Tutte le caratteristiche della misura sperimentale. Primi assegni ad aprile per il privato
Pagina a cura di Leonardo Comegna

La platea dei potenziali aderenti alla famosa «quota 100» (38 anni di contributi più 62 di età) nel 2019 sarà di circa 290 mila persone, di cui il 40% dipendenti pubblici. Questi sono i numeri stimati dai tecnici ministeriali, considerato lo stanziamento di 3,9 miliardi di euro. La misura ha carattere sperimentale. Varrà per il triennio 2019-2021, poi si vedrà. Sarà comunque garantito il diritto per chi lo matura entro il 2021: potrà aderire a quota 100 anche dopo che si esaurirà la fase sperimentale. Ci sono poi le famose «finestre», trimestrali per i dipendenti del settore privato, la cui prima rendita decorrerà in aprile; e semestrali per i pubblici, i quali vedranno il primo assegno ad agosto. C’è anche il congelamento dei requisiti richiesti per la pensione di anzianità e la proroga dell’opzione donna. Ma andiamo con ordine.

Un assegno più magro. Va subito detto che il provvedimento non prevede alcuna penalizzazione diretta. Ovviamente, la normale applicazione dei metodi di calcolo della pensione darà luogo a un assegno più magro. È infatti evidente che, uscendo prima dall’attività lavorativa, si abbiano meno anni di contribuzione.
Non solo, il coefficiente di calcolo applicato sarà più basso per le età più giovani, perché il montante accumulato dovrà appunto essere spalmato su più anni di erogazione. Secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di bilancio, il taglio dell’assegno cresce da circa il 5%, in caso di anticipo solo di un anno a valori oltre il 30% se l’anticipo è di oltre 4 anni. Tagli che si riducono attualizzando la pensione con «quota 100», cioè tenendo conto del fatto che si percepirà per più tempo. Si va così da una riduzione dello 0,22% per chi anticipa di un anno a una di quasi il 9% per chi lascia il lavoro nel 2019 anziché nel 2025.

Niente cumulo. Il decreto prevede che l’assegno con «quota 100» non sia cumulabile con redditi da lavoro superiori a 5 mila euro l’anno. Divieto che durerà fino alla data in cui il pensionato raggiungerà l’età di vecchiaia, ossia i 67 anni. Condizione questa che dovrebbe scoraggiare una parte degli aventi diritto. Soprattutto chi possiede un’elevata professionalità e che spesso, una volta andato in pensione, si dedica a prestare consulenze.
Pensione d’anzianità. Stop alla speranza di vita. Almeno per la pensione anticipata. Il decreto dispone la cancellazione dell’adeguamento all’aspettativa di vita del requisito unico previsto per la pensione anticipata (ex pensione d’anzianità), cristallizzandolo a 41 anni e 10 mesi alle donne, a 42 anni e 10 mesi agli uomini e a 41 anni ai precoci (chi ha iniziato a lavorare prima dei 19 anni di età). La novità avrà effetto dal 1° gennaio, facendo così venir meno l’incremento che c’è appena stato di cinque mesi. La porta d’accesso alla rendita, però, si aprirà trascorsi tre mesi dalla maturazione dei requisiti.

La bozza del decreto non prevede distinzioni tra dipendenti pubblici e privati, a differenza di quanto è previsto nella quota 100. Pertanto, anche i dipendenti del pubblico impiego dovranno attendere tre mesi e non sei mesi dalla data di maturazione dei requisiti. Questo discorso non vale per chi ha maturato i requisiti entro il 31 dicembre 2018, in quanto non è coinvolto nel meccanismo dello slittamento, quindi mantiene la disciplina precedente.
Lavoratori precoci. I cosiddetti «precoci», ossia coloro che possono far valere un anno di lavoro effettivo prima dei 19 anni di età, potranno uscire con 41 anni di contributi, ma con un posticipo di tre mesi. In sostanza si perdono solo due mesi rispetto alla normativa precedente.
Tra i requisiti ci sono quelli di svolgere attività particolarmente faticose, oppure essere «care givers» (assistere un familiare inabile), invalido civile almeno al 74% o disoccupato che abbia esaurito la Naspi e passato un ulteriore trimestre di inoccupazione. L’assegno è calcolato con il sistema misto o retributivo ed è erogato dopo tre mesi dalla data di maturazione dei requisiti.
Opzione donna. Il decreto contiene anche la proroga di un anno per la cosiddetta «opzione donna». La possibilità di ottener la pensione prima, ma con il meno vantaggioso metodo di calcolo «contributivo». Interessate le lavoratrici dipendenti nate entro il 31 dicembre 1959 e le autonome entro il 31 dicembre 1958, purché abbiano maturato almeno 35 anni di contributi entro il 31 dicembre 2018. Continua a essere applicata la finestra mobile di 12 mesi per le dipendenti e di 18 mesi per le autonome. Dunque, se i 35 anni di contributi sono stati perfezionati nel giugno 2018 la prima finestra si aprirà il 1° luglio 2019, se trattasi di lavoratrice dipendente, il 1° gennaio 2020, se trattasi di lavoratrice autonoma. Come accennato, la scelta non è indolore poiché il calcolo «contributivo» genera spesso una importante riduzione dell’assegno che resterà poi per tutta la vita. L’entità della riduzione ma dipende da diversi fattori tra i cui l’età alla decorrenza della pensione (la riduzione è maggiore in corrispondenza di età di pensionamento più basse), la dinamica della carriera lavorativa, la tipologia di lavoro (dipendente o autonomo). Si stima che il taglio prevede una penalizzazione tra il 20 e il 30%.

Liquidazione dipendenti pubblici. I dipendenti pubblici che lasceranno in anticipo il lavoro, utilizzando «quota 100», rischiano di dover aspettare anche fino a 8 anni per la liquidazione. Il decreto stabilisce che la buonuscita agli statali venga pagata soltanto al momento in cui matureranno i requisiti previsti dalla legge Fornero, ossia una volta raggiunti i 67 anni. La scelta del governo sarebbe dettata da motivazioni strettamente economiche: pagare subito il trattamento di fine servizio (Tfs) e di fine rapporto (Tfr) dei tanti dipendenti statali che andranno in pensione, rappresenterebbe un costo proibitivo per le casse dello Stato. Oggi il Tfr e il Tfs vengono liquidati solo fino a 50 mila euro, mentre se l’importo supera i 50 mila euro, ma è inferiore a 100 mila euro, viene liquidato in due rate annuali (con un ritardo quindi di 12 mesi); se l’importo supera i 100 mila euro, le rate annuali diventano tre. Insomma, se un dipendente pubblico lasciasse il lavoro a 62 anni di età avendo versato 38 anni di contributi (come previsto da Quota 100), e avesse maturato una liquidazione superiore a 100 mila euro, per avere l’intera cifra dovrebbe aspettare i 70 anni.
Per attenuare l’operazione, è stato deciso che il pagamento sarà immediato, ma solo per una tranche di 30mila euro. Il resto invece sarà pagato a rate.
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