di Roberta Castellarin e Paola Valentini
Mai come nelle prossime elezioni politiche il welfare è stato così centrale nei programmi elettorali dei vari schieramenti in campo. D’altronde l’Italia è reduce da una profonda fase di crisi che ha lasciato segni in tutti i settori economici. E il rilancio dovrà quindi essere accompagnato da misure che possano sostenere famiglie e lavoratori. E così accanto al tradizionale cavallo di battaglia dei grandi tagli delle tasse, promessi da tutti i partiti, le proposte sul fronte della previdenza occupano in questa tornata elettorale un ruolo davvero di primo piano. D’altronde la legge Fornero, adottata nel pieno della crisi dello spread del 2011, ha fin da subito creato talmente tante situazioni di squilibrio da spingere immediatamente i vari governi che si sono succeduti dopo quello Monti a ridurre l’impatto dell’allungamento della vita lavorativa, che per alcuni arrivava anche a cinque o sei anni.

Fino a Matteo Renzi, che ha varato l’Ape (anticipo pensionistico), una misura per permettere ai lavoratori di uscire con qualche anno di anticipo senza aspettare la soglia dei 67 anni. L’Ape doveva partire a maggio dello scorso anno ma i temi di attuazione si sono allungati e oggi è ancora in stand-by. E forse resterà tale perché in base all’esito del voto del 4 marzo e al governo di coalizione che si formerà potrebbe veramente essere stravolto l’intero sistema previdenziale. A partire dal segretario della Lega, Matteo Salvini, che vuole abolire la legge Fornero. Leggermente più cauto Luigi Di Maio, che ha proposto il progetto quota 41, ovvero il numero di anni di contributi che danno diritto alla pensione, indipendentemente dall’età anagrafica del lavoratore (in pratica un ritorno del sistema di anzianità abolito dalla Fornero). Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, punta invece a un altro fronte e propone di aumentare almeno a 1.000 euro la pensione minima, mentre è più cauto riguardo alla revisione totale del sistema pensionistico pubblico. La legge Fornero «è l’unico punto del programma su cui abbiamo da discutere: Salvini insiste per l’azzeramento, noi insistiamo che si scriva azzeramento degli effetti negativi», ha detto Berlusconi in una delle sue ultime apparizioni in tv. Il segretario del Pd Renzi, intanto, è più concentrato su provvedimenti di welfare allargato come un bonus di 80 euro questa volta per i figli a carico. Di certo tutti devono fare i conti con i vincoli di finanza pubblica dato che per ora l’Europa concede pochi margini di manovra, il debito pubblico resta elevato (vedere articolo a pagina 16) e smantellare la riforma Fornero porterebbe, secondo i calcoli della Ragioneria Generale dello Stato, a mancati risparmi per l’Italia stimati in circa 350 miliardi cumulati da qui al 2060. Un recente studio di Credit Suisse dedicato al settore bancario italiano ha dedicato un capitolo proprio alle elezioni italiane e ai programmi elettorali delle coalizioni in campo, con un focus su quanto costerebbe realizzarle sia in termini assoluti sia in termini di percentuale rispetto al pil.

Gli esperti di Credit Suisse sottolineano che le proposte finora avanzate dal centro destra (Lega e Forza Italia) durante la campagna elettorale in corso appaiano le più costose. In particolare, l’introduzione di una pensione minima a 1.000 euro costerebbe 18 miliardi allo Stato. Mentre la riduzione dell’età a cui andare in pensione di due o tre anni (punto su cui non c’è però accordo tra Lega e Forza Italia) avrebbe un costo di 140 miliardi per il periodo 2017-2035 che si tradurrebbe in 18 miliardi all’anno. Oltre al capitolo previdenza ci sono poi in programma del centro destra una riduzione delle tasse, una maggiore flessibilità rispetto al Fiscal compact e l’introduzione di un salario minimo di cittadinanza per chi è senza reddito o ha un reddito molto basso, per un conto totale di 104-130 miliardi, se si include la riduzione dell’età di pensionamento, ossia un costo pari al 7-8% del pil. Se si esclude l’intervento sull’età pensionabile si arriva a una percentuale su pil del 5-7%. Per Lega e Forza Italia le risorse per finanziare queste risorse si possono trovare grazie all’emersione dell’economia sommersa come conseguenza del taglio delle tasse, alla riduzione della spesa pubblica e alla maggiore flessibilità nelle regole di bilancio fissate dalla Ue.

Gli esperti di Credit Suisse ricordano che anche le proposte del movimento 5 Stelle appaiono costose. In questo caso il conto totale si attesta tra i 53 e i 59 miliardi, che equivalgono al 3-4% del pil. In questo caso si propone di finanziare le nuove voci di spesa con la revisione degli scaglioni Irpef privilegiando, nell’ottica di redistribuzione della ricchezza, le fasce di contribuenti medio-basse rispetto alla fascia sopra i 90 mila euro e incrementando le tasse per banche e assicurazioni. Dal punto di vista della spesa pubblica il programma del centro sinistra appare più moderato e si basa su una modifica dell’Irpef che riduca il peso per chi possiede immobili e un bonus di 80 euro per i figli minorenni. Il conto totale in questo caso si attesterebbe tra 19 e 23 miliardi, quindi un 1% del pil.

Ma la sostenibilità dei conti pubblici non è l’unico tema da considerare. Se le ultime riforme, culminate con quella dell’ex ministro del lavoro del governo Monti, hanno reso meno a rischio i bilanci dell’Inps guidata da Tito Boeri e di conseguenza i conti pubblici, bisogna considerare che ciò è avvenuto a discapito dell’adeguatezza delle pensioni pubbliche. Che saranno sempre più basse perché «per diversi motivi, inclusi i periodi di disoccupazione e di inattività, in molti si ritroveranno ad avere un montante pensionistico e quindi una pensione decisamente bassa», ha spiegato in una recente intervista all’Agi Stefano Scarpetta, direttore del dipartimento occupazione, lavori e affari sociali dell’Ocse. Il problema è che per le ultime generazioni l’occupazione è molto spesso discontinua e precaria. Carriere a singhiozzo e stipendi bassi si traducono in un capitale accumulato per la pensione altrettanto modesto.

Rilanciare l’occupazione anche attraverso un collegamento tra il mondo delle scuole e quello delle imprese, come accade in molti Paesi esteri, avrebbe quindi un impatto sull’adeguatezza delle pensioni. Secondo Scarpetta, servirebbero anche misure affinché il lavoro possa sfruttare i vantaggi della tecnologia per accompagnare i lavoratori prossimi alla pensione verso attività meno gravose. «L’idea che ancora prevale in Italia è che prima si lavora, magari a tempo pieno, e poi di colpo si va in pensione e non si lavora più. Invece la società sta cambiando, aumentano le aspettative di vita, migliora lo stato di salute delle persone, il mercato del lavoro si evolve e con la rivoluzione digitale consente anche di lavorare da casa e di accettare forme di lavoro a tempo parziale. Introdurre questa opzione di un pensionamento graduale abbinato all’attività lavorativa è qualcosa che la tecnologia ci consente ora di fare», ha detto Scarpetta.

Non bisogna poi dimenticare il capitolo della previdenza complementare. Tanto più che, dato l’orizzonte temporale di lungo periodo della previdenza, non è necessario partire con somme ingenti. Per investire a rate nei fondi pensione si possono infatti accantonare cifre mensili anche di poche decine di euro. Si tratta di un possibile antidoto al fatto che il nuovo sistema previdenziale italiano ha dato sicurezza allo Stato in termini di conti pubblici, ma a scapito di una maggiore incertezza per i lavoratori.

Il tutto poi con un dilemma: lavorare più a lungo vuol dire avere un assegno più generoso e meno lontano dall’ultimo stipendio, mentre uscire prima (quando è possibile) comporta una pensione più bassa. È quindi importante fin d’ora pensare a come attrezzarsi in modo da avere più sicurezze almeno in termini di reddito futuro.

La società di consulenza indipendente Progetica ha elaborato per MF-Milano Finanza un’analisi su quanto bisogna versare alla previdenza complementare fin da oggi per avere al momento della pensione un assegno integrativo di 1.000 euro al mese. Nella tabella pubblicata in queste pagine si indicano due possibili scenari, ossia uno in cui la speranza di vita cresce poco d’ora in poi e il pil resta stagnante. E un altro in cui invece sale molto la speranza di vita e il pil cresce dell’1% all’anno. Ecco cosa succede caso per caso.

Per chi ha oggi 60 anni, la meta è vicina: potrà andare in pensione a 67 anni e 2 mesi, se la speranza di vita sale poco, e a 67 anni 7 mesi se sale molto. Se si tratta di un lavoratore dipendente, nel caso di uno stipendio mensile di 2.200 euro, nell’ipotesi prudenziale di crescita del pil a zero e speranza di vita che cresce meno potrà contare su un assegno di 1.898 euro. L’obiettivo di avere un assegno integrativo di mille euro in più al mese appare davvero difficile da raggiungere se si parte così tardi. Il versamento per un sessantenne dovrebbe essere infatti di 2.900 euro al mese per poter poi avere una rendita da 1.000 euro sette anni dopo.

Per chi oggi ha 50 anni l’età del pensionamento varia, tra scenario più prudenziale e scenario più favorevole, da 67 anni e 9 mesi e 68 anni e 11 mesi. Per chi è dipendente e ha un reddito mensile di 1.800 euro l’assegno dello scenario prudente sarà di 1.517 euro. Nel caso l’obiettivo fosse avere una rendita vitalizia di 1.000 euro da aggiungere a quella garantita dall’assegno pubblico il versamento mensile fino all’età della pensione è dello stesso importo se la speranza di vita cresce poco e senza l’aiuto dei mercati, mentre è di 907 euro se si va in pensione più tardi e se i mercati danno una mano.

Per chi ha 40 anni e quindi ricade del tutto nel contributivo le variabili in gioco aumentano. In questo caso si può infatti optare per la pensione anticipata di tre anni, ma solo nel caso in cui la pensione sia maggiore di 2,8 volte l’assegno sociale. Quindi un dipendente 40enne che guadagna 1.400 euro al mese oggi potrà andare in pensione a 65 anni con una pensione pubblica di 1.000 euro nello scenario più prudente. Per ottenere una pensione integrativa di 1.000 euro al mese la cifra da versare ogni mese va dai 775 euro se la speranza di vita cresce poco e i mercati non aiutano a 497 euro se invece lo scenario è opposto.

Per un 30enne dipendente che guadagna 1.000 euro al mese la pensione scatterà a 65 anni e 5 mesi se potrà optare per quella anticipata con un assegno di 735 euro in uno scenario prudente con la speranza di vita che cresce poco e il pil fermo. Mentre l’assegno arriva a 963 euro se deve rinviare il momento della pensione a 71 anni e 10 mesi perché l’assegno prima sarebbe inferiore a 2,8 volte l’assegno sociale. Se l’obiettivo è avere una scorta di mille euro al mese al momento della pensione la cifra da versare in una linea a rischio medio-alto si attesta a 485 euro fin da ora. Nel caso in cui la speranza di vita cresca molto e i mercati aiutino si può raggiungere l’obiettivo con un versamento di 276 euro.

Sottolinea Andrea Carbone, della società di consulenza indipendente Progetica: «In sintesi, andare in pensione prima, è positivo per chi desidera smettere di lavorare appena possibile; ma porta con sé pensioni più basse e la necessità di versare di più in previdenza integrativa, perchè è minore il tempo che manca alla pensione». Aggiunge Carbone: «Al contrario, andare in pensione dopo significa rimandare il momento della fine dell’attività lavorativa, ma avere una pensione pubblica più ricca e una minor necessità di versamenti in previdenza integrativa a parità di obiettivo. Il tutto a patto, naturalmente, di poter contare sulla continuità lavorativa». Carbone ricorda che, come spesso accade dunque, in previdenza tempo e denaro hanno comportamenti inversi: prima si va, meno risorse si hanno (o più bisogna versarne). «Il valore del tempo è evidenziato anche confrontando le età: se per un 30enne possono essere sufficienti, nel migliore dei casi (ossia se va in pensione dopo), 276 al mese per averne 1.000 al tempo della pensione, per un 60enne la cifra sale a 2.898; rimandare di 30 anni il momento di inizio della pensione può moltiplicare per dieci il versamento necessario».

Intanto per i rendimenti dei fondi pensione il 2017 si chiude con buoni risultati. Se al giro di boa del primo semestre la rivalutazione del Tfr era stata superiore (+1,1%) al rendimento medio dei fondi pensione negoziali (0,9%), il bilancio dei 12 mesi si chiude a favore di questi ultimi che segnano nel periodo un risultato medio netto del 2,5% (in base ai dati raccolti da MF-Milano Finanza su un campione che rappresenta oltre l’80% del mercato) a fronte del Tfr in azienda che fa l’1,74% netto (su base annua la liquidazione si rivaluta dell’1,5% fisso più il 75% dell’inflazione Istat).
Dal canto loro i fondi pensione aperti registrano un +2,6% medio netto (dati Fida), dopo il +1,2% dei primi sei mesi. Da sottolineare che i rendimenti dei fondi pensione scontano una tassazione più pesante rispetto al Tfr. I primi prevedono un’aliquota del 20%, il secondo del 17%. E tra i negoziali ci sono linee che hanno fatto oltre il 5%. Si tratta dei profili azionari che hanno beneficiato del buon andamento delle borse nel 2017. È il caso del comparto Azionario di Mediafond (settore radio televisivo privato) che segna un rendimento del +11,85%. A fine dicembre 2017 gli aderenti a Mediafond erano pari a 2.715, con un aumento del 2% rispetto al 2013. «Nonostante la congiuntura economica particolarmente negativa, negli ultimi cinque anni le masse gestite sono aumentate del 56,16%», spiegano dal fondo. Nel solo 2017 Mediafond, inoltre, ha registrato un forte incremento dei contributi volontari una tantum che hanno raggiunto un importo di circa 600 mila euro. «Il risultato ottenuto sui contributi una tantum è il segno tangibile dell’elevato grado di soddisfazione degli iscritti e il frutto di una costante e continua informativa previdenziale resa agli iscritti ulteriormente sviluppata nel corso del 2017 anche attraverso il rinnovamento del sito internet www.mediafond.it e l’avvio della pagina Facebook », spiega ancora il fondo del settore radio tv. Sopra il 5% c’è anche il profilo Dinamico di Solidarietà Veneto (+5,42%). «Bassa volatilità, una persistente situazione di tassi bassi e crescente ottimismo relativamente alla crescita economica: questo, in sintesi, il quadro che ha caratterizzato i mercati finanziari nel 2017 e che permette di spiegare i rendimenti delle principali asset class. Un clima di complessiva fiducia, a cui hanno contribuito senza dubbio i risultati degli appuntamenti elettorali europei, il perdurare del Qe, con la conseguente abbondanza di liquidità e i tassi bassi, finiscono infatti per spingere i capitali verso forme di investimento reputate più remunerative. Ne hanno naturalmente tratto beneficio gli asset azionari», sottolinea Paolo Stefan direttore del fondo pensione dei dipendenti di aziende della regione Veneto. In questo scenario, il comparto Dinamico, «nonostante una componente azionaria non elevata, mediamente pari al 50% del portafoglio, e la debolezza del dollaro Usa, ha spuntato un ottimo rendimento. Impressionano ancor di più i risultati nel lungo periodo, che attraggono soprattutto i giovani aderenti. Fra questi proprio il Dinamico costituisce la scelta nettamente prevalente, tanto che quasi un quinto degli associati a Solidarietà Veneto ha scelto tale linea gestita da Amundi ed Eurizon. Una percentuale molto elevata e non così frequente nel mondo dei fondi pensione negoziali», osserva Stefan.

Sulla ridotta volatilità dei mercati registrata nel 2017, Stefan ricorda che «non si ha memoria di periodi così lunghi di calma piatta anche per quanto riguarda lo stesso comparto Dinamico, nel quale la volatilità è reputata una consuetudine. Di conseguenza si osserva, ormai da mesi, un progressivo calo della percezione del rischio anche da parte del piccolo risparmiatore prossimo alla pensione. Un fattore indubbiamente preoccupante, soprattutto quando si parla di investimento previdenziale». Dal lato opposto c’è da sottolineare che le linee garantite hanno sofferto per via dell’aumento dei rendimenti obbligazionari. «Nelle ultime due settimane di dicembre i mercati hanno colto qualche segnale di rialzo dei tassi: i rendimenti sono risaliti e, di riflesso, è diminuito il valore dei titoli obbligazionari presenti nei portafogli che ha compresso la performance. Emerge però, in questo contesto, il potenziale offerto dalla garanzia che caratterizza il nostro comparto Garantito Tfr da Cattolica Assicurazioni : chi lo sceglie dispone, almeno fino a giugno 2020, di un rendimento minimo garantito pari alla rivalutazione netta del Tfr, che nel 2017 è stata dell’1,74%. Si tratta di un valore aggiunto che difficilmente si trova sul mercato, se non forse a costi molto più elevati».

Anche tra i fondi pensione aperti i migliori prodotti del periodo sono quelli azionari. E la loro maggior esposizione all’equity, rispetto ai negoziali, fa sì che le performance dei primi in classifica abbiano superato anche il 10%. A partire da Allianz Insieme Linea Azionaria di Allianz Spa che ha reso il 13,16%. Mentre i risultati peggiori sono appannaggio delle linee obbligazionarie (la peggiore è la Helvetia Domani Linea Obbligazionaria con il -2,97%).
E ora la prossima frontiera dei fondi pensione sono i Peep. un prodotto pensionistico di tipo individuale armonizzato a livello europeo, che si affiancherà ai fondi pensione occupazionali e ai prodotti previdenziali individuali esistenti a livello nazionale. Il 29 giugno scorso la Commissione europea ha presentato la sua proposta di Regolamento Ue. Il problema è che in Italia i rendimenti dei fondi pensione sono tassati, mentre «le discipline vigenti in altri Paesi, tipicamente esportatori di servizi finanziari, come Irlanda e Lussemburgo, ma non solo, ne prevedono l’esenzione. L’introduzione dei Peep», spiega Mario Padula, presidente della Covip, «può essere l’occasione per ripensare la disciplina fiscale delle forme pensionistiche in modo ancor più efficace a favorire lo sviluppo del settore ovvero per valutare la possibilità di adottare un regime di esenzione dei rendimenti per i Peep per mettere il nostro Paese in condizione di esportare servizi finanziari di natura previdenziale, in considerazione dall’esperienza maturata dall’industria italiana dei prodotti pensionistici individuali». (riproduzione riservata)

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