di Luca Gualtieri
Incalzato dalla Bce e dalla concorrenza internazionale, il sistema bancario italiano avrà costante bisogno di capitale nei prossimi anni. Non solo per ripulire gli attivi al ritmo imposto dal calendar provisioning di Francoforte, ma anche perché la sfida del fintech richiederà forti investimenti per restare sul mercato. Dalle crisi degli ultimi due anni si è capito che non sempre gli azionisti sono disposti ad aprire il portafoglio e che il sistema non accetterà altre socializzazioni delle perdite dopo Atlante e lo schema volontario. Ecco perché si fa sempre più insistente la necessità di individuare nuovi interlocutori, in grado di puntellare le fragilità del sistema e accompagnare le ristrutturazioni in corso. Non occorre molta fantasia per arrivare a private equity e investment manager, soggetti che negli ultimi dieci anni hanno colmato di attenzioni il settore dei servizi finanziari perfino in un Paese problematico come l’Italia. L’elenco delle operazioni più rilevanti dimostra non solo una costante disponibilità a investire, ma anche una capacità di gestire impegnativi processi di ristrutturazione e consolidamento.
Tra i target non sono mancate le banche, anche se finora si è trattato per lo più di capital light company slegate dall’intermediazione creditizia e proiettate sui ricavi da commissione. Ma non c’è dubbio che le attenzioni maggiori siano andate a settori ancillari al business bancario come il risparmio gestito, i pagamenti, le attività di back office e la gestione dei crediti deteriorati. Finora insomma i fondi si sono mossi ai margini del sistema, complici la bassa redditività del retail banking e la resistenza di Bankitalia verso soggetti non vigilati. Nei prossimi anni però il trend potrebbe cambiare, soprattutto se il deleveraging degli attivi e la ripresa del margine di interesse proiettassero il roe degli istituti verso livelli più accattivanti dell’attuale 5% . In un contesto di questo genere qualche investitore potrebbe farsi avanti e accompagnare il target attraverso una ristrutturazione dura ma necessaria.
Del resto i dossier transitati in questi anni sulle scrivanie di private equity e hedge fund sono stati molti. Il primo investimento significativo nei servizi finanziari italiani risale al 2000, quando Fortress comprò Italfondiario in cordata con Giuseppe Gazzoni Frascara, Angelo Rovati, Luca Cordero di Montezemolo e Giandomenico Martino. L’approccio del gruppo americano (dove oggi gioca un ruolo chiave il riservato managing director Francesco Colasanti) si rivelò tutt’altro che speculativo se si pensa che la partecipazione è ancora lì e che nel frattempo il perimetro è stato allargato alla ex UniCredit Credit Management Bank diventata poi DoBank . Al 2007 risale invece la prima incursione in Italia di Jc Flowers con l’acquisto dal Credem della maggioranza della storica Euromobiliare sim (poi Equita ), partecipazione detenuta fino al gennaio 2016 quando venne rilevata con un management buy-out capitanato da Alessandro Profumo. Se Investindustrial si è limitato alla parentesi di Bpm (fruttata comunque una plusvalenza generosa), particolarmente interessante è il track record di Clessidra. Nel 2009 la sgr oggi presieduta da Carlo Pesenti (che ne è anche principale azionista attraverso Italmobiliare ) e guidata da Mario Fera è entrata nel risparmio gestito al fianco di Mps con Prima, poi fusa con Anima nel 2010. L’investimento è durato fino al 2015 quando, dopo l’ipo, Clessidra ha liquidato l’ultimo 7,5% portando a casa tre volte e mezzo l’investimento iniziale. Fa ben sperare anche l’acquisto dell’Istituto Centrale delle Banche Popolari Italiani (Icbpi), la banca di secondo livello rilevata nel 2015 in cordata con Advent International e Bain Capital per una valutazione di 2,15 miliardi. Attorno al gruppo (che nei mesi scorsi è stato ribattezzato Nexi, mentre l’ex CartaSì è diventata Nexi Payments) sta nascendo un polo internazionale dei servizi di pagamento come dimostrano le recenti acqusizioni di Setefi e di Bassilichi. Per meglio accentuare questa focalizzazione in vista dell’ipo prevista tra 2019 e 2020, i fondi potrebbero vendere le attività ancillari a partire da quella di banca depositaria. Altro settore a cui il mondo del private equity ha guardato con grande attenzione è quello assicurativo. Lo dimostra l’acquisto delle compagnie di Carige da parte di Apollo (guidato in Italia da Andrea Moneta), operazione che ha dato vita al gruppo Amissima Assicurazioni. Dopo l’uscita del Banco Popolare la piccola Eurovita è invece passata per 47 milioni sotto il controllo di Jc Flowers che lo scorso anno ha passato il testimone a Cinven. Il private equity inglese guidato in Italia da Eugenio Preve era già presente nel settore delle polizze con Ergo ed Old Mutual di cui ha avviato l’integrazione in un unico polo. Grandi appetiti ha suscitato anche il mondo del wealth management. Se la Sator di Matteo Arpe si è concentrata sulla ristrutturazione di Banca Profilo dopo le disavventure di Sandro Capotosti, in tempi più recenti Attestor Capital si è aggiudicato Banca Intermobiliare mentre, sul fronte del gestito, una ressa di pretendenti si è accalcata attorno ai dossier Pioneer, Allfunds e Arca sgr. Volumi inferiori registra infine la nicchia dei servicer di non performing loan che da qualche anno ormai sono oggetto di acquisizioni mirate, come quella di Lone Star con Caf o quella di Varde su Guber.
Più timido è stato invece l’interesse per il retail tradizionale, anche se non sono mancate avance a gruppi in difficoltà come Mps o le due banche venete. Un atteggiamento bollato come opportunistico da alcuni banchieri di lungo corso che si sono premurati di evocare Gordon Gekko e i barbarians at the gate. Sarà interessante capire se la costante fame di capitali ammorbirà questo giudizio, rompendo così uno degli ultimi tabù del settore. (riproduzione riservata)
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