di Carlo Giuro
Il nuovo intervento di riordino del sistema previdenziale focalizza l’attenzione in maniera forte sul ruolo previdenziale del trattamento di fine rapporto (tfr), dopo l’esperimento, peraltro ancora in corso fino a giugno 2018, della possibilità per il lavoratore di farlo confluire in busta paga. Va ricordato in premessa che, nello schema di funzionamento dell’Anticipo pensionistico (Ape), la formula varata dal governo per permettere ai lavoratori di ritirarsi in modo flessibile fino a tre anni prima della maturazione dei requisiti della pensione di vecchiaia, viene previsto il possibile concorso della Rendita integrativa temporanea (Rita) da parte fondi pensione. Dal punto di vista concettuale quest’ultima è un’anticipazione erogabile a rate con l’applicazione dell’ imposta sostitutiva del 15% con riduzione dello 0,30% per ogni anno di durata superiore al quindicesimo con un minimo del 9%. La previdenza complementare diviene allora, nelle intenzioni, un’ulteriore soluzione per il lavoratore nell’ambito della flessibilità in uscita introdotta dall’Ape.
La Rita conferirebbe poi alle forme di previdenza complementare una maggiore elasticità di accesso alle prestazioni e quindi maggiore attrattività agli occhi dei potenziali aderenti (tra i principali elementi approfonditi dalla psicologia comportamentale applicata alla previdenza complementare emerge infatti la percezione di una eccessiva rigidità dei fondi pensione). Nella stessa direzione va poi il disegno di legge concorrenza che potrebbe essere finalmente approvato a breve dopo una lunga gestazione. La norma, all’articolo 16, prevede che le forme pensionistiche complementari, in caso di cessazione dell’attività lavorativa che comporti l’inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 24 mesi (anziché 48 mesi, come attualmente previsto dal decreto 252/2005), possano erogare le prestazioni pensionistiche o parti di esse, su richiesta dell’aderente, con un anticipo di cinque anni rispetto ai requisiti per l’accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio di appartenenza (anche in forma di rendita temporanea), fino al conseguimento dei requisiti di accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio. Gli statuti e i regolamenti delle forme pensionistiche complementari possono in ogni modo innalzare l’anticipo di cui al periodo precedente fino a un massimo di dieci anni (attualmente l’anticipo massimo previsto dal decreto 252/2005 è di cinque anni). Va ricordato come i fondi pensione sono strutturati finanziariamente sul meccanismo della capitalizzazione con un trasferimento quindi in senso verticale (a beneficio dello stesso aderente), nel tempo, dei contributi versati attraverso l’investimento finanziario fino al momento del pensionamento (la prestazione potrà essere erogata al raggiungimento dei requisiti di pensionamento previsti dal regime obbligatorio di appartenenza con un minimo di cinque anni di partecipazione).
In questa prospettiva nel salvadanaio previdenziale può sicuramente avere una consistente rilevanza una componente come il trattamento di fine rapporto che costituisce il 6,91% della retribuzione di un lavoratore dipendente che, sommato nelle forme collettive al contributo del datore di lavoro e a quello del lavoratore (in genere di importo equivalente), consente di costruire un flusso contributivo più consistente alimentando una dote che può generare una Rita potenzialmente più congrua. (riproduzione riservata)
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