Non solo i grandi speculatori, ma anche i fondi sovrani, i Paesi emergenti e i fondi comuni, prima forti compratori, sono diventati addirittura venditori netti. La turbolenza potrebbe proseguire per un po’

di Vincenzo Sciarretta

Un attacco malevolo e selvaggio ha colpito i mercati azionari nelle prime due settimane del 2016, senza fare distinzioni di latitudine o di lignaggio: insomma il ko è pesantissimo e non risparmia nessuno. Ma chi vende? Da dove arrivano i martellanti ordini a liquidare? Sono solo i soliti, maledetti, hedge fund come spiegato nel servizio di pagina 8? È bene scoprirlo, se si vuol capire quando e se la tempesta si placherà.

In primo luogo, anche un osservatore distratto noterà come il capitombolo dei mercati azionari procede di pari passo con la decimazione dei prezzi petroliferi.

Ma perché? Più di un commentatore ha giustamente notato che il tonfo delle quotazioni energetiche affossa le società petrolifere che ad esempio in Europa rappresentano il 7% della capitalizzazione di borsa, con picchi del 12% in Italia e nel Regno Unito e del 16% in Olanda. Ma questa è solo una risposta parziale, perché se esistono settori che soffrono quando le materie prime precipitano, altri comparti traggono invece grande sollievo. E allora? Per fare un passo avanti nell’indagine bisogna spostare l’attenzione sui grandi fondi sovrani, che per diversi lustri hanno acquistato asset finanziari a man bassa. I più importanti di essi sono finanziati dal petrolio. A esempio quelli della Norvegia, di Abu Dhabi, dell’Arabia Saudita, del Kuwait o del Qatar. Questi fondi hanno svolto la funzione di un salvadanaio. Cioè i petrodollari in eccesso venivano qui incorporati e poi impiegati per acquistare azioni, obbligazioni e ogni genere di asset, allo stesso modo in cui una colonia di formiche accumula molliche per l’inverno. Durante gli anni buoni, quando cioè il petrolio veleggiava oltre 100 dollari al barile o poco meno, gli asset nella pancia dei fondi sovrani crescevano al ritmo di circa 500 miliardi di dollari l’anno, passando da circa 3.400 miliardi di dollari nel 2008 a un picco di poco superiore a 7 mila miliardi nel marzo del 2015. Questi acquisti hanno contribuito senz’altro ad alimentare la tendenza rialzista del mercato azionario. Ma poi il prezzo del petrolio è crollato, a partire dall’estate del 2014. E quello che ne è seguito va ricostruito con l’aiuto di fonti che Milano Finanza ha consultato all’interno dei fondi sovrani. Il loro racconto segue più o meno questa trama: quando il prezzo del greggio ha iniziato a scendere nell’estate del 2014, i Paesi del Golfo per un po’ sono andati avanti comunque, ricorrendo alla liquidità disponibile e a varie forme di finanziamento. Tuttavia, presto la liquidità si è assottigliato fino a livelli insufficienti ad assicurare un buon tenore di vita in Paesi nei quali molti considerano la Ferrari  in garage come un diritto acquisito. E allora, tra il primo e il secondo trimestre del 2015 quando i mercati occidentali hanno toccato i massimi, i fondi sovrani hanno cominciato a vendere asset allo scopo di creare liquidità. Secondo fonti informate le vendite sono state nell’ordine di alcune centinaia di miliardi di dollari su base annua. Non è poco; e non è poco soprattutto perché i fondi sovrani sono passati da essere acquirenti netti per diverse centinaia di miliardi l’anno a ribaltare la posizione, diventando venditori netti per alcune centinaia di miliardi annui e la tendenza potrebbe acuirsi in queste settimane in risposta allo smottamento nel mercato petrolifero.

Una svolta simile, cioè il passaggio da acquirenti a venditori netti, è avvenuta per i Paesi emergenti, il più importante dei quali è la Cina. Come spiega Felix Zulauf, investitore svizzero, storico frequentatore delle tavole rotonde organizzate da Barron’s, il settimanale finanziario americano. Dice Zulauf: «Quando per anni gli Stati Uniti favorirono la politica del dollaro debole, il settore privato delle nazioni emergenti si indebitò pesantemente in dollari per finanziare ogni genere di operazioni. Le banche centrali di quei Paesi, a loro volta, comprarono dollari e vendettero valuta locale, per evitarne l’apprezzamento, e quindi crearono grande liquidità interna. Adesso che il dollaro è forte, la tendenza si è ribaltata: le banche centrali vendono asset e riserve per difendere le loro valute, con ciò drenando liquidità. Le riserve valutarie cinesi si assottigliano al ritmo di almeno 500 miliardi di dollari su base annua. Di conseguenza ciò che era un boom di liquidità ora è diventata una contrazione della liquidità». E di fatto la borsa cinese, e i mercati emergenti in generale, sono nell’occhio del ciclone.

Un altro carburante che ha alimentato il rialzo azionario dal 2009 in avanti sono state le operazioni di buy-back, di fusione e di acquisizione. Dato il denaro a buon mercato, il management delle aziende aveva un forte incentivo a indebitarsi per riacquistare azioni proprie con un rendimento superiore al costo del debito. Si trattava di una semplice operazione utile a gonfiare i profitti. Tuttavia l’aumento del costo del denaro per le obbligazioni corporate, e ancor più i titoli spazzatura, che ha caratterizzato le ultime settimane, lascia presagire che questo tipo di acquisti subirà un ridimensionamento o lo sta già subendo.

Ed Yardeni, l’ascoltato guru di Wall Street, osserva che l’anno scorso il rialzo di Wall Street è stato guidato da un numero circoscritto di giganti della tecnologia. A esempio, Facebook ha guadagnato il 34,1%, Amazon il 117,8%, Netflix il 134,4% e Google il 46,6%. Il fatto che questi medesimi titoli ora tirino la volata al ribasso può essere indice della circostanza che chi ha guadagnato bene vuole portare a casa le vincite. Un discorso simile si potrebbe ripetere con i titoli della biotecnologia che pure hanno subito una bastonatura dopo aver trottato nel 2015.

A ogni modo non bisogna mai sottovalutare lo spirito gregario dei risparmiatori che tendono a esaltarsi sulla via del rialzo e a deprimersi durante le correzioni, magnificando i movimenti in una direzione e nell’altra con i loro acquisti e con le loro vendite. E in effetti gli ultimi dati sui fondi comuni americani suscitano qualche motivo di apprensione: come mostra il grafico a pagina 9, nelle ultime 13 settimane i fondi comuni americani hanno subito un’emorragia pari a 245 miliardi di dollari (su base annua.)

E sempre rimanendo ai capitali speculativi va fatta un’ulteriore sottolineatura: gli acquisti finanziati a margine (cioè con denaro preso a prestito) risultano essere ai massimi di tutti i tempi, In genere la speculazione trova coraggio tanto più a lungo si protrae il rialzo, ma poi, al primo ribasso, quando la fiducia viene scossa, gli stessi speculatori tendono ad alleggerire le posizioni, aggiungendo al volume delle vendite.

I motivi di turbolenza dunque esistono, ma in mancanza di una recessione, che pochi annunciano, la correzione non dovrebbe preludere a un vero e proprio tracollo come nel 2008 o nel 2000, ma anzi potrebbe determinare delle interessanti occasioni d’acquisto per il lungo termine. (riproduzione riservata)