Pagina a cura di Giovambattista Palumbo 

 

Meglio prevenire che curare. Il diritto ambientale comunitario, così come la prassi del buon padre di famiglia, è caratterizzato dalla centralità del criterio della «prevenzione» e dà un ruolo ausiliario e integrativo del principio «chi inquina paga».

L’art. 191, comma 2 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) stabilisce che: «La politica della Comunità in materia ambientale [ ] è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”». L’art. 117 della Costituzione classifica del resto la tutela dell’ambiente, tra le materie a legislazione esclusiva statale, mentre nella legislazione concorrente troviamo la valorizzazione dei beni culturali e ambientali. La tutela dell’ambiente è dunque uno di quei casi in cui obiettivi comunitari e costituzionali coincidono. Nell’ambito dell’adempimento di tali obblighi, tuttavia, la Commissione può verificare che non si verifichino aiuti di stato e che ogni azione a tal fine predisposta sia necessaria per la tutela ambientale e lo sviluppo sostenibile, senza produrre effetti sproporzionati sulla concorrenza e sulla crescita economica. Solo una tutela ambientale preventiva garantisce però l’efficacia della protezione, sulla base della consapevolezza della inevitabile irreversibilità dei danni causati all’ambiente. E dunque ogni azione da parte dello stato, anche economica, a tutela preventiva dell’ambiente, oltre che doverosa sulla base dei principi di tutela costituzionale del diritto alla salute e della tutela dell’ambiente, appare in linea con gli stessi principi comunitari, laddove, la ratio di tutela dell’ambiente prescinde, in vista dell’obiettivo superiore, dalle rigide logiche di mercato. Qualsiasi sia, pertanto, la natura imprenditoriale del soggetto che inquina, la responsabilità dello stato nei confronti della collettività resta comunque, dato che da quell’attività possono derivare danni all’ambiente e alla salute, che prescindono dalle singole responsabilità (che potranno poi comunque essere accertate in sede civile e penale, anche in applicazione del principio del chi inquina paga) e che impongono in ogni caso allo stato di intervenire subito, sia in via preventiva che riparatoria, laddove necessario per minimizzare i danni a carico della collettività. Il diritto vigente, del resto, anche per i suddetti motivi, sancisce che, nel caso di mancata individuazione del soggetto responsabile, o di impossibilità a ottenere dai responsabili le risorse finanziarie necessarie per il risanamento, o comunque di mancata esecuzione, da parte degli stessi, degli interventi necessari, le opere di recupero devono essere comunque eseguite dall’amministrazione competente, che potrà poi rivalersi sul proprietario dell’area. Il concetto è dunque che, a prescindere dalle responsabilità giuridiche (che faranno il loro corso, con i loro tempi), lo stato non può esimersi dall’intervenire. In un tale scenario, i delegati di 195 paesi, che hanno partecipato alla recente Conferenza mondiale sul clima, hanno firmato, come noto, un accordo, in cui si impegnano a ridurre le emissioni inquinanti. Alcune delle disposizioni previste nell’accordo sono vincolanti, mentre ad altre i vari paesi aderiscono solo in maniera volontaria. Tutti i paesi saranno comunque obbligati a fornire l’obiettivo di riduzione delle emissioni a cui mirano e a partecipare al processo di revisione quinquennale. E allora, anche in linea con le indicazioni dell’art. 53 della Costituzione, che parla non solo di capacità contributiva, ma anche di funzione solidaristica delle imposte, anche la leva fiscale potrebbe essere di aiuto a rendere i suddetti propositi effettivi, sia in funzione preventiva che, eventualmente, riparatoria. In base a specifici indicatori è del resto già oggi possibile calcolare i danni che le attività economiche generano. Grazie alla leva fiscale potrebbe dunque essere possibile disincentivare le attività che generano esternalità negative, distinguendo comunque l’aliquota di tassazione a seconda del settore economico e del grado specifico di esternalità negativa generato. Basti pensare del resto che specifici studi hanno calcolato che, per esempio, l’estensione della tassa (già oggi vigente) su SO2 e NOx a tutti i settori che contribuiscono a tali emissioni (invece che, come oggi, solo alle centrali termoelettriche), porterebbe un incremento del gettito dagli attuali 14 milioni di euro a circa 10 miliardi di euro. Al di là dei numeri (sempre difficili da calcolare in modo oggettivo) e dei possibili parametri di riferimento (tra questi, anche quello comunitario di misurazione dell’intensità carbonica per unità di prodotto), da utilizzare certo in modo equilibrato, anche sulla base delle esigenze di sostenibilità economico/industriale, è comunque evidente come i margini di azione sarebbero rilevanti e potrebbero anche consentire di ridistribuire il carico fiscale, abbassando la tassazione su altri soggetti e settori, a minor impatto inquinante.

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