di Lucio Sironi

Non solo in Italia ma in tutta Europa il 2013 si farà ricordare come un anno record per l’industria del risparmio gestito, in cui le masse in gestione hanno superato i livelli pre-crisi. Due i pistoni della crescita: i nuovi flussi di raccolta e i robusti rialzi dei mercati. Ma ora il salto di qualità, utile anche per conferire maggiore stabilità alla crescita del settore, potrebbe giungere da un impiego più finalizzato dello strumento dei fondi comuni, che potrebbe consistere nell’introduzione di incentivi fiscali che possano aiutare a risparmiare in vista della pensione o di impegni importanti (casa, cure mediche, studi per figli e nipoti). Prese in considerazione nel 2011 dall’ex ministro Giulio Tremonti per rilanciare gli investimenti a lungo termine, queste agevolazioni sono rimaste nel cassetto perché al contrario lo Stato, a caccia di risorse, ha visto piuttosto nel risparmio degli italiani un bacino di facile raccolta, caricando di nuove tasse sia le attività finanziarie sia la casa. Ma se ora il Governo volesse/potesse tornare a ragionare più a lungo termine, si potrebbe pensare di rimettervi mano. Fabio Galli, direttore di Assogestioni, ha ipotizzato che l’aliquota dei nuovi piani di risparmio che investono in fondi possa essere dimezzata dal 20 al 10%. Anche Anasf è intervenuta, sui piani individuali di risparmio, con la proposta di esenzione della tassazione sulle rendite finanziarie per le eventuali plusvalenze maturate e di una durata minima di cinque anni. Le esperienze straniere a cui fare riferimento sono positive. Gli Individual savings accounts (Isa) nel Regno Unito o i Plans d’épargne en actions in Francia hanno avuto il merito di richiamare investimenti a più lunga scadenza da parte dei privati. Lo strumento offre anche sufficienti margini di manovra affinché all’interno di questo conto le scelte possano essere comunque cambiate, purché, per conseguire l’aliquota agevolata, si mantenga nel tempo l’importo richiesto in termini di investimenti. Si incanala in questa direzione anche una proposta di regolamento del Parlamento europeo sui fondi che investono a lungo termine (Eltif), che ha aperto a sua volta il dibattito su come aiutare i risparmiatori a pensare di più agli investimenti extra-titoli di Stato al di fuori di una logica mordi-e-fuggi. E a proposito di tasse, sarà bene chiarirsi le idee su come è cambiata (di nuovo) la fiscalità italiana soprattutto sul versante della gestione della liquidità. Non tutti hanno colto le novità sui conti di deposito, molto apprezzati l’anno scorso, quando una fitta incertezza paralizzava le scelte dei più. Questi prodotti sono tuttora soggetti all’imposta di bollo del deposito titoli, come le altre forme d’investimento, ma la recente legge di Stabilità, che ha alzato tale imposta dallo 0,15 allo 0,2%, nel loro caso ha eliminato il prelievo minimo di 34,2 euro. Che invece rimane sui conti correnti ordinari, con una soglia di esenzione fino a 5 mila euro. Questo significa che per importi tra 5 mila ai 17.145 euro i conti di deposito sono fiscalmente avvantaggiati rispetto ai c/c. Un deposito di 6 mila euro paga un’imposta di 34,2 euro che equivale allo 0,57%. Lo stesso importo parcheggiato invece in un conto di deposito implica un’imposta di 12 euro, quindi meno della metà. Una gimkana tra strumenti di per sé semplici, ma che il piccolo investitore può essere disposto a percorrere, solo che ne sia messo debitamente al corrente, anche naturalmente dal suo promotore finanziario.