di Anna Messia

Si aprono ufficialmente i cantieri per la dismissione di una quota del capitale di Poste Italiane spa destinata al mercato e in parte anche agli oltre 144 mila dipendenti del gruppo, sul modello tedesco di compartecipazione alla gestione societaria. Ieri a Palazzo Chigi c’è stata una lunga riunione presieduta dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Filippo Patroni Griffi, alla quale ha preso parte il direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via, che è anche presidente del comitato privatizzazioni, oltre al viceministro per lo Sviluppo Economico, Antonio Catricalà, al consigliere economico della presidenza del Consiglio, Fabrizio Pagani, e all’amministratore delegato di Poste Italiane, Massimo Sarmi.

Sul tavolo c’era in particolare la possibile valorizzazione di Poste Italiane considerando «il quadro regolatorio, la convenzione con Cassa Depositi e Prestiti e i crediti verso lo Stato di Poste (che nel 2013 superavano i 2 miliardi, ndr)», come reso noto in una nota di Palazzo Chigi a tarda serata. In pratica, per dare un valore alle Poste in vista dell’apertura del capitale e bisognerà ovviamente tenere conto del servizio Universale, degli accordi con Cdp per la distribuzione dei buoni postali e dei crediti verso la pubblica amministrazione. L’operazione di privatizzazione, come noto, era stata annunciata dal presidente del consiglio, Enrico Letta, durante il suo discorso alla Camera di metà dicembre quando, chiedendo e ottenendo per la seconda volta la fiducia, aveva aperto alla fase due delle privatizzazioni per il 2014. In pole position, per la seconda ondata di cessioni, c’erano proprio le Poste Italiane, forti di un patrimonio netto che a fine giugno scorso era di 5,7 miliardi e di un utile che alla stessa data ammontava a 362 milioni. A differenza di quanto ipotizzato in passato, l’intenzione dell’esecutivo sarebbe di cedere una quota di minoranza dell’intera Poste Italiane Spa, servizi postali compresi. L’alternativa, probabilmente più semplice e veloce, sarebbe stata quella privatizzare uno dei gioiellini del gruppo, come la compagnia assicurativa Poste Vita o il Banco Posta che continuano a macinare utili mentre i servizi postali tradizionali arrancano e peggiorano inevitabilmente anno dopo anno. Ma la volontà del Tesoro, che oggi controlla l’intero capitale di Poste Italiane, sarebbe di lavorare sull’intero aggregato, collocando una quota di minoranza compresa tra il 30 e il 40%. Del resto, a fine ottobre scorso era stato lo stesso Sarmi a dichiarare, durante un’audizione in commissione Trasporti delle Camera che «non si privatizza prendendo la parte ricca e il resto rimane. Se venisse deciso di privatizzare Poste Italiane si dovrebbe pensare alla sua interezza, non a un pezzo piuttosto che a un altro». Una scelta che piace ovviamente anche ai sindacati che, in linea di massima, sembrano favorevoli anche alla compartecipazione al capitale della società, che potrebbe avvenire per esempio tramite Fondoposte, il fondo complementare del gruppo nato nel 2012. Ma si tratta solo di un’ipotesi e a questo punto, alla luce anche della riunione di ieri, i sindacati attendono di conoscere gli sviluppi dell’operazione.

 

Per quanto riguarda il mercato, l’interesse da parte di investitori istituzionali per l’ingresso nel capitale non sembra mancare, anche se come detto sarebbe stato sicuramente più veloce collocare solo una parte del gruppo. Le Poste Italiane sono un gruppo diversificato in diverse aree, dalle polizze ai mutui, dai conti correnti alla telefonia e quando a giugno scorso Sarmi ha deciso di emettere un bond gli ordini sono stati quasi 5 volte superiori l’offerta, con richieste per oltre 3,6 miliardi di euro a fronte di un’emissione da 750 milioni. Anche l’esperienza inglese sembra essere di buon auspicio: a ottobre scorso il governo di Londra ha messo sul mercato il 52% delle poste britanniche Royal Mail incassando 1,72 miliardi di sterline. Si è trattato della più importante privatizzazione in Gran Bretagna da 30 anni finita per il 33% in mano a investitori privati con richiesta degli istituzionali superiori a venti volte l’offerta. Il primo giorno del debutto in borsa Royal Mail è salita di oltre il 30%, portando però con sé uno strascico di polemiche sollevate dai sindacati che hanno parlato di una svendita. Nel caso italiano la maggioranza verrebbe però mantenuta saldamente nelle mani del ministero dell’Economia e questo potrebbe far calare un po’ l’appeal. Ma c’è un’altra incognita sull’operazione: il patto di governo che Letta vuole chiudere entro il 20 gennaio con le tensione nella maggioranza che restano alte. (riproduzione riservata)