di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Un prestito a se stessi per andare in pensione prima. È la proposta del ministro del Lavoro Enrico Giovannini per tentare di introdurre maggiore flessibilità nella riforma Fornero senza pesare sui conti dello Stato già oberati dal debito pubblico record. Gli interventi dell’ex ministro del Welfare hanno infatti spazzato via le pensioni di anzianità che permettevano, a chi non aveva un minimo di 40 anni di contributi, di andare in pensione a 60 anni di età e 36 anni di contributi (la famosa quota 96 che sarebbe diventata quota 97 dal 2013 con 61 anni di età) allungando l’età di addio al lavoro.

Oggi invece per accedere alla pensione anticipata sono necessari 42 anni e mezzo di contributi per gli uomini e un anno in meno per le donne, mentre la vecchiaia scatta a 66 anni e 3 mesi per gli uomini, a 63 anni e 9 mesi per le donne dipendenti e a 64 anni e 9 mesi per le autonome. Tutti requisiti peraltro destinate a salire nel tempo perché sono agganciati all’andamento della speranza di vita certificata dall’Istat. Come unico correttivo la riforma Fornero ha dato la possibilità di andare in pensione prima dei 62 anni ma con una decurtazione dell’assegno dell’1% per ogni anno di anticipo, quota che diventa il 2% oltre i due anni di anticipo.

 

Ma gli interventi della Fornero non hanno previsto meccanismi uguali per tutti che consentano al lavoratore di ritirarsi prima evitando di diventare un esodato, cioè un ex lavoratore senza stipendio e senza pensione.

Senza dimenticare che anche le aziende, alla prese con la lunga crisi economica, accetterebbero ben volentieri soluzioni che consentano di mandare in pensione prima idipendenti con maggiore anzianità.

Il cantiere delle pensioni quindi si riapre, mentre continua la discussione politica sul rilancio del lavoro. L’idea del prestito previdenziale allo studio di Giovannini darebbe al lavoratore vicino all’età per la pensione la possibilità di ritirarsi in anticipo ricevendo un importo minimo (6-700 euro al mese). Somme che lo stesso lavoratore restituirà una volta in pensione con i requisiti di legge tramite una trattenuta sull’assegno erogato dall’Inps. L’importo trattenuto verrebbe calcolato sulla base delle aspettative di vita e dovrebbe rappresentare al massimo il 15% della pensione. Prima di arrivare alla proposta definitiva Giovannini ha aperto un tavolo di confronto con imprenditori e sindacati per verificare l’accoglienza del progetto. Infatti le stesse aziende potrebbero essere chiamate a partecipare all’anticipo della pensione, assieme all’Inps.

 

«Per evitare nuovi casi di esodati stiamo lavorando sugli aspetti tecnici di un provvedimento per anticipare l’età di pensione con il contributo anche da parte delle aziende», ha detto Giovannini nei giorni scorsi. L’esponente del governo ha sottolineato che l’ipotesi è allo studio «in queste ore con il ministero dell’Economia» per mettere a punto «una proposta robusta» dal punto di vista tecnico-giuridico e finanziario. «Un provvedimento complesso che può prevedere il contributo anche da parte delle aziende», ha aggiunto. In una nota Giovannini ha precisato che «lo strumento allo studio è finalizzato a favorire la transizione su base volontaria dal lavoro alla pensione, fermi restando i requisiti dell’attuale normativa. Tale strumento andrebbe incontro a persone e imprese (come quelle di minori dimensioni) che attualmente non possono utilizzare gli strumenti previsti in materia dalla legislazione vigente». Nella nota si ribadisce che «l’ipotesi alla quale si sta lavorando non modificherebbe le regole pensionistiche attualmente esistenti ma offrirebbe uno strumento aggiuntivo cui si accederebbe su base volontaria, con il possibile coinvolgimento delle imprese, come già avviene nei casi previsti dalla legge per le aziende di maggiori dimensioni».

D’altra parte oggi esiste già una formula che tramite intese con i sindacati permette di mandare in pensione prima i lavoratori dipendenti grazie al versamento da parte dell’azienda di gran parte dell’assegno. Un meccanismo che ha trovato applicazione nelle grandi aziende mentre non è utilizzabile dalle piccole imprese. Eppure anche queste ultime potrebbero avere necessità di dare uno scivolo ai lavoratori, soprattutto, come di recente ha ricordato lo stesso Giovannini, nei casi in cui l’età avanzata può comportare maggiori rischi per il tipo di attività svolta.

 

La richiesta da parte dei lavori di una maggiore flessibilità è forte. Come dimostra il fatto che dopo la riforma Fornero 17 mila lavoratrici hanno scelto il pensionamento con l’opzione di 57 anni di età e 35 di contributi, accettando in cambio il passaggio a un puro metodo contributivo (che comportava un taglio dell’assegno tra il 20 e il 30%). Una strada introdotta in via sperimentare dalla riforma e che doveva essere possibile fino al 2015, ma che ora è ostacolata da una circolare Inps. L’ente previdenziale in una circolare ha precisato che entro il 31 dicembre 2015 deve verificarsi la decorrenza del trattamento e non la maturazione dei requisitivi. Tenuto conto delle finestre di 12 mesi per le dipendenti e di 18 per le autonome, si riduce la platea di che può utilizzare questa strada. Sul tema è scesa in campo la Cgil. «È davvero singolare che persino un meccanismo come l’opzione contributiva per le donne, fortemente penalizzante perché alle pensionate comporta una decurtazione della pensione di almeno un quarto, venga sabotata e di fatto cancellata». Ad affermarlo è il segretario confederale della Cgil, Vera Lamonica. «La circolare Inps, che applica anche a questo istituto la finestra mobile e l’attesa di vita, dalla Cgil fortemente contestata all’epoca dell’emanazione, va corretta per consentire che la norma possa applicarsi fino alla scadenza, ovvero il 31 dicembre del 2015». Intanto, aggiunge la dirigente sindacale, «il ministero del Lavoro studia nuove soluzioni purtroppo per tamponare, e non per risolvere, i catastrofici effetti della riforma; sarebbe opportuno che intanto desse un indirizzo chiaro all’Inps per la correzione della circolare, come del resto chiesto anche dalla commissione Lavoro della Camera».

Insiste sulla necessità di una maggiore flessibilità del sistema anche Cesare Damiano (Pd), ex ministro del Lavoro, che ha proposto di reintrodurre una fascia flessibile di pensionamento a scelta del lavoratore tra i 62 e i 70 anni, pagando una penalizzazione massima dell’8%. In particolare, Damiano ricorda: «Riterrei opportuno che il Partito democratico non archiviasse il tema delle pensioni. Il problema dei cosiddetti esodati non è assolutamente risolto e rimane inalterata la necessità di inserire una clausola di flessibilità nel sistema previdenziale. Le decisioni che il governo Merkel adotterà a breve su questo tema ci possono aiutare a uscire da una visione tutta provinciale sul tema del welfare». In particolare, Damiano ricorda che il ministro del Lavoro tedesco, la socialdemocratica Andrea Nahles, ha presentato un progetto di riordino del sistema pensionistico che costerà alla Germania circa 160 miliardi di euro fino al 2030. La misura più significativa, voluta dai socialdemocratici, riguarderà la possibilità di andare in pensione già a 63 anni con 45 anni di contributi, senza la riduzione della rendita. «Queste scelte rappresentano sicuramente uno stimolo per un rilancio anche in Italia di una discussione per correggere la riforma delle pensioni voluta dal governo Monti e sconfessare molti luoghi comuni: con la previdenza non è necessario fare sempre cassa», conclude Damiano.

Per l’Italia resta il fatto che il problema della cassa è ancora cruciale e che la riforma Monti Fornero con il suo risparmio da 80 miliardi ha messo in sicurezza i conti pubblici. Per questa ragione ogni ragionamento riguardo a una maggiore flessibilità del sistema va associato a quello sulle risorse da reperire per coprirne il costo. In questo senso uno sguardo va rivolto anche al lavoro che sta facendo il commissario straordinario per la revisione della spesa Carlo Cottarelli. Tra i capitoli di spesa nel mirino di Cottarelli c’è anche quello delle pensioni medio-alte ancora tutte retributive. Un contributo di solidarietà da questi assegni potrebbe alimentare un fondo per dare maggiore flessibilità a chi avrà un sistema contributivo molto meno generoso rispetto a quello retributivo.

 

Per approfondire gli effetti pratici della proposta Giovannini MF-Milano Finanza ha chiesto alla società di consulenza indipendente Progetica un’analisi dell’impatto prendendo come base un importo del prestito pari a 700 euro al mese. Nella simulazione elaborata da Progetica le aziende non sono considerate, in quanto i cittadini si fanno carico di restituire il prestito, attraverso un meccanismo «assicurativo» di solidarietà (chi vive più a lungo rimborsa di più), mentre lo Stato eroga il prestito e non fa pagare interessi. «Il meccanismo dell’auto-prestito sarebbe una sorta di polizza collettiva per esodati» con cui gli interessati beneficiano di un anticipo di denaro che verrebbe restituito in modo vitalizio, riducendo l’importo dell’assegno pensionistico», spiega Andrea Carbone di Progetica.

Chi vivrà meno dell’attesa media di vita restituirà meno di quanto avuto in prestito, ma complessivamente coloro che vivranno più a lungo compenseranno versando di più di quanto avuto: un meccanismo assicurativo a rovescio. «Data la rilevanza sociale del tema, abbiamo ipotizzato che lo Stato non chieda alcun interesse per il prestito, così come non vengono chiesti interessi sulla rateizzazione del pagamento del riscatto di laurea, per esempio», aggiunge Carbone. Progetica ha simulato tre età di esodati (60, 62, 64 anni), con tre diversi livelli di pensione teorica netta mensile spettante al compimento del 66 anni: 750 euro (ovvero la media Inps per gli uomini e le donne nel 2012), 2.200 euro (equivalente ai circa 3 mila lordi di cui si è tanto discusso), 1.500 euro (valore intermedio). A partire dal prestito totale erogato e dalla speranza di vita a 66 anni Progetica ha stimato la trattenuta mensile e di conseguenza il suo peso percentuale rispetto alla pensione teorica spettante, nonché la pensione vitalizia che potrebbe essere effettivamente percepita. Dall’analisi di Progetica emerge che la trattenuta mensile andrebbe dal 4 al 34%, in funzione della pensione teorica spettante (più è bassa, più alta è la trattenuta) e dell’età dell’esodato (più è giovane, più alta è la trattenuta). «Il meccanismo risulterebbe più accettabile per esodati vicini alla pensione, con pensioni teoriche dai 1.500 euro in su che vedrebbero trattenute fino all’11%», avverte Carbone. «Molto più delicata la posizione di coloro ai quali spettasse l’attuale assegno medio di vecchiaia (circa 750 euro, ndr), che avrebbe trattenute dall’11 al 34%, abbassando notevolmente l’assegno vitalizio». In sostanza però risulta che il meccanismo di fatto «sarebbe equivalente a una riforma che rendesse libera l’età di pensionamento tra, per esempio, i 62 e i 70 anni», aggiunge Carbone. Una forchettà di età che corrisponde proprio all’intervallo proposto da Damiano per accedere alla flessibilità della pensione. «In questo caso, a differenza dell’auto-prestito, chi andasse in pensione prima dei 66 anni avrebbe una riduzione percentuale vitalizia fissa sul proprio assegno pensionistico e l’assegno definitivo fin da subito. Nel caso dell’auto-prestito infatti l’assegno sarebbe inizialmente fisso, per esempio 700 euro, e poi percentualmente ridotto dai 66 anni in avanti», prosegue Carbone. Con quali impatti per i conti dello Stato? «In ogni caso sia l’auto-prestito sia la liberalizzazione dell’età di pensionamento all’interno di una forchetta significherebbero una spesa pensionistica immediata e non prevista dagli attuali equilibri. In compenso alleggerirebbe la spesa futura perché gli assegni pensionistici sarebbero più bassi di quelli ora previsti. Il tema del reperimento e della disponibilità di risorse nell’immediato resta dunque centrale per questa come per altre soluzioni ipotizzate per la gestione degli esodati o per possibili evoluzioni del sistema Monti-Fornero», dice Carbone.

 

Senza dimenticare il tema dell’adeguatezza: anticipare il momento della pensione porta a una diminuzione del valore dell’assegno percepito. «Abbiamo anche analizzato l’ipotesi valutandola come se fosse una sorta di mutuo, nell’ambito del quale si pagano le rate finché si è in vita, restituendo il capitale fino a vita media e pagando gli interessi in seguito. Grazie alla forte dilazione nel tempo e all’assenza di tassi di interesse l’operazione si rivelerebbe equa per il cittadino», conclude Carbone. (riproduzione riservata)