di Tancredi Cerne  

 

È tempo di riportare a casa i capitali detenuti all’estero. Il tiepido favore mostrato dagli italiani in occasione degli scudi fiscali degli anni passati non sembra destinato a ripetersi per l’edizione 2014 della voluntary disclosure, la regolarizzazione fiscale varata dal governo per agevolare il rientro volontario dei capitali detenuti otre confine. Ma quali sono le ragioni che dovrebbero convincere stavolta gli italiani ad approfittare di una sanatoria che in passato ha lasciato piuttosto scettico il popolo degli evasori? La risposta non è legata allo sconto sugli eventuali reati tributari commessi. Né tantomeno al contenimento delle sanzioni sulle somme evase, nemmeno paragonabili alle condizioni garantite in passato dagli scudi fiscali. Quello che è cambiato è il clima economico e sociale che ha indotto i governi di mezzo mondo a inasprire il proprio atteggiamento nei confronti dei contribuenti lanciando una crociata senza precedenti contro l’evasione internazionale. Sia a livello di singoli contribuenti che nei confronti delle società. Da questa partita non si è tirato indietro nemmeno il governo di Roma che nel corso degli ultimi anni ha dato un colpo di accelerazione alla propria battaglia ai conti cifrati detenuti dagli italiani nei paradisi fiscali di mezzo mondo.

 

Gli accordi internazionali. L’ultimo capitolo di questa lotta senza confine all’evasione internazionale è stato scritto pochi giorni, fa, il 10 gennaio scorso, con la firma dell’accordo intergovernativo tra la Penisola e gli Stati Uniti per l’attuazione del Fatca (Foreign Account Tax Compliance Act). Intesa già avallata nei mesi scorsi da Francia, Germania, Regno Unito e Spagna che consentirà lo scambio automatico di informazioni di natura finanziaria tra le autorità fiscali italiane e quelle americane. E nel caso in cui gli intermediari statunitensi come banche trust, fondi e assicurazioni dovessero decidere di non comunicare i nomi e le movimentazioni dei propri clienti a stelle e strisce, la norma prevede l’applicazione di una ritenuta del 30% sui pagamenti provenienti dall’America sotto forma di cedole, dividendi, interessi, stipendi o rendite in capo agli intestatari di un conto presso i loro istituti. Al di là dell’America, il governo di Roma ha intrapreso una lunga serie di iniziative di carattere tributario con vecchi e nuovi paradisi fiscali con l’intento di abbattere quanto più possibile il peso dell’evasione internazionale dai buchi di bilancio dall’Agenzia delle entrate. Come nel caso dell’accordo fiscale sottoscritto da Roma con San Marino. Al termine di un tira e molla durato alcuni anni, il governo italiano ha raggiunto un’intesa sulla convenzione fiscale col Titano, entrata in vigore all’inizio del 2014, che vieta di opporre il segreto bancario in caso di richiesta di informazioni, promuovendo allo stesso tempo lo scambio di informazioni secondo le nuove direttive Ocse. Non solo. Per stanare gli evasori più fantasiosi, i tecnici di Roma sono arrivati alla definizione di intese tributarie con alcuni nomi noti delle black list dell’Ocse. A dicembre è arrivata la firma dell’accordo per lo scambio di informazioni fiscali con il paradiso fiscale dell’Isola di Man, ultimo atto di una lunga lista di interventi che ha portato, come risultato, alla sottoscrizione di accordi bilaterali di Roma con Jersey, Guernsey, Bermuda, Cayman e Gibilterra. Che si vanno ad aggiungere alle numerose intese amministrative per lo scambio di dati firmate nel corso degli anni dall’Italia con più di 90 giurisdizioni tra cui figurano nomi blasonati come l’Australia, l’Austria, il Belgio, ma anche Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Spagna, Svezia e Stati Uniti, tanto per citare i più importanti. A cui si aggiungono le intese volte a garantire la possibilità di effettuare verifiche fiscali simultanee tra l’Italia e l’Australia, l’Austria, il Belgio, la Francia, la Svezia e gli Usa. Risultato, il cerchio attorno agli evasori seriali si sta progressivamente stringendo. Unico grande escluso, fino a questo momento, il più grande antagonista di Roma nella partita per il contrasto all’evasione internazionale: la Svizzera.

 

Italia-Svizzera. «L’accordo cui l’Italia lavora con Berna per la tassazione dei capitali esportati illegalmente verso l’estero è molto vicino e i colloqui con il governo elvetico sono andati bene, ma non posso dare ancora una data precisa». Queste le parole pronunciare a Davos in occasione del Forum economico mondiale da parte del ministro dell’economia, Fabrizio Saccomanni, secondo cui il provvedimento per il rientro dei capitali varato dal Consiglio dei ministri non prevede alcuna forma di anonimato, amnistia o condono, ma solo un diverso trattamento penale per il contribuente che collabora con il fisco. C’è invece un inasprimento penale per coloro che non collaborano e possono venire identificati attraverso lo scambio di informazioni a livello internazionale, l’attività di polizia e altri meccanismi. Sul negoziato con Berna, Saccomanni ha spiegato che «tutti hanno interesse che si risolva in tempi brevi. Abbiamo accelerato la normativa italiana proprio perché volevamo avere una base chiara e poi negoziare con i singoli paesi o a livello internazionale, per esempio in sede Ocse». Il negoziato con la Svizzera tocca anche altri temi aperti fra i due paesi, ha ammesso Saccomanni. «Si è fatto molto lavoro sulla sistemazione del passato, su una transizione verso un sistema di scambio automatico delle informazioni. Viene abbandonata, l’impostazione dell’accordo Rubik stretto fra gli Usa e la Svizzera che non abbiamo mai creduto proponibile perché mantiene livelli anonimato che non intendiamo introdurre nella normativa italiana. Non siamo in grado di accettare forme di residuo anonimato, perché non sarebbero coerenti con la nuova normativa italiana». Alle parole di fiducia espresse dal ministro italiano hanno fatto eco quelle di Paolo Bernasconi, ex procuratore di Lugano. «La fuga dei capitali italiani in Svizzera finirà prestissimo. Il vostro governo arriva per ultimo ma sta lavorando bene con il pubblico ministero, Francesco Greco, per la regolarizzazione fiscale dei patrimoni. Prima di voi lo hanno già fatto tedeschi, americani e portoghesi, con successi formidabili», ha spiegato Bernasconi. «Credo che con lo scudo sia tornato pochissimo in Italia, qualche centinaio di milioni. La verità è che esiste ancora una marea di contribuenti italiani che non hanno regolarizzato nulla». Difficile tradurre in numeri certi il flusso continuo di capitali neri che nel corso degli anni si sono spostati al di là del confine con la Svizzera. Alcuni parlano di 120 miliardi di euro, altri di 150, altri ancora di 200 miliardi. Valori, in ogni caso, piuttosto consistenti e in grado, in caso di rientro volontario, di dare una sterzata alle martoriate finanze del governo italiano.

 

Il giudizio di Bruxelles. La nuova voluntary disclosure messa a punto dall’esecutivo italiano per spronare il popolo degli evasori a regolarizzare i propri capitali detenuti oltre confine non viene vista di buon occhio dalla Commissione europea. Non ne ha fatto segreto il commissario Ue alla fiscalità, Algirdas Semeta (si veda l’intervista su ItaliaOggi del 21/01). «Non è un segreto che la commissione europea considera fondamentale la lotta alla frode e all’evasione fiscale per assicurare l’equità e l’efficacia della tassazione», ha spiegato Semeta. «E abbiamo fatto pressione sugli stati membri perché intensifichino la lotta contro questo tarlo a livello domestico, così come stiamo facendo su scala europea e internazionale. Non posso ancora esprimermi sugli specifici nuovi piani messi a punto dall’Italia per contrastare il fenomeno dell’evasione. Molto dipenderà dai dettagli che si stanno ancora definendo e da come i nuovi provvedimenti verranno attuati. In generale, tuttavia, non sono mai stato un grande sostenitore dei condoni fiscali. Credo, infatti, che possano ingenerare un rischio morale minando il principio dell’equità fiscale». E ancora. «Mi rendo conto che i governi hanno bisogno di entrate supplementari e sono alla ricerca di nuovi strumenti per recuperare le tasse non dichiarate e non riscosse. Se utilizzati con saggezza, i meccanismi di voluntary disclosure sono strumenti utili per regolarizzare il passato, mettere ordine nella situazione dei contribuenti e ripartire da capo. Il mio consiglio a tutti gli Stati membri è quello di utilizzare i meccanismi di regolarizzazione volontaria solo come ultima risorsa, quando sono assolutamente necessari per azzerare il passato. Ma il loro utilizzo dovrebbe andare di pari passo con l’istituzione di pene più severe per le frodi commesse dopo la scadenza dei termini per la regolarizzazione volontaria delle pendenze passate con il Fisco».