Non sussiste alcuna logica contraddittorietà nel riconoscimento del danno biologico e nel rigetto della domanda relativa al danno alla professionalità. È di palmare evidenza che le due voci di danno hanno presupposti completamente diversi, essendo una relativo al fisico del lavoratore, mentre la seconda alla sua professionalità e cioè all’aspetto della sua prestazione e capacità lavorativa. Ad affermarlo è la sezione lavoro della Cassazione nella sentenza 172 dell’8 gennaio. Il danno alla professionalità non può essere considerato in re ipsa nel semplice demansionamento, «essendo invece onere del dipendente provare tale danno dimostrando, ad esempio, un ostacolo alla progressione di carriera. Questa Corte ha più volte affermato che in caso di accertato demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità del lavoratore non può prescindere dalla prova del danno (cfr. Cass. 30 settembre 2009 n. 20980)». Secondo autorevole giurisprudenza della stessa cassazione Il demansionamento e il mobbing necessitano della prova dell’ inferiorità delle mansioni svolte o del danno alla salute subito, e, comunque, richiedono la specificazione della materialità dei fatti contestati. Ne deriva che, in mancanza di dati di indagine, il giudice del lavoro non può esercitare i suoi poteri istruttori d’ufficio. Nel caso posto all’attenzione della Corte, il ricorrente principale nemmeno ha dedotto circostanze che inducano i giudici ad affermare l’esistenza del tipo di danno richiesto, affermando, invece, un’inammissibile danno alla professionalità in re ipsa. Inoltre in specie è pacifico che il lavoratore abbia subito sanzioni e trasferimenti dichiarati illegittimi, per cui «correttamente è stato ritenuto sussistente il presupposto per la condanna del datore di lavoro responsabile al risarcimento del danno morale e biologico subito dal dipendente destinatario di provvedimento poi riconosciuti illegittimi».