di Giuliano Castagneto

Per l’Italia il 2013 potrebbe rivelarsi l’anno della rinascita del risparmio gestito. Basta guardare il grafico, riportato in pagina, della raccolta netta da parte dei fondi di investimento. Dopo una fine 2011 da dimenticare – nel solo dicembre di quell’anno il deflusso netto di risorse è stato di poco inferiore ai 10 miliardi di euro – nell’anno appena concluso non sono mancate le occasioni per le società di gestione di tornare a vedere il segno più nel dato di raccolta.

E, dato ancora più confortante, una raccolta positiva si è vista anche nello scorso novembre, ultimo dato disponibile presso Assogestioni. E nel penultimo mese dell’anno l’incertezza, soprattutto sull’esito della crisi del debito nell’Eurozona, non ha certo mollato la presa sui mercati, visto che gli aiuti alla Grecia erano ancora sub judice, mentre dall’altra parte dell’oceano infuriava la polemica su come evitare il Fiscal Cliff.

Dell’importanza dell’asset management sembra se ne siano accorte anche le grandi banche americane, come per esempio JP Morgan, alla caccia di business che non assorbono il prezioso capitale. La gestione di fondi offre questa caratteristica, non assorbe capitale, a differenza di tanti altri business bancari come il trading o la pura attività di credito. E questo può giocare un ruolo centrale nella capacità di un’azienda bancaria di generare valore per gli azionisti.

In America, riferisce Business Week, mentre il contributo agli utili dell’investment banking è calato dal 49 al 43%, quello delle gestioni è salito dal 23 al 28%.

Nel frattempo tra i risparmiatori, almeno quelli che ancora dispongono di cifre apprezzabili, comincia a farsi strada la convinzione che i beni rifugio, quelli a basso rischio, non offrano più un mix adeguato di rischio e rendimento. In America sono tanti i pensionati che si affidano anche a cedole e dividendi per arrivare a fine mese. Ma oggi i titoli del Tesoro americano a sei mesi rendono lo 0,05%. Detto in altri termini, occorrono 1.387 anni affinché la cifra investita in essi raddoppi di valore. Quindi una gestione più aggressiva diventa quasi una necessità. E visto che il baratro fiscale, almeno per il momento, è stato scongiurato e che sul debito dell’Eurozona finalmente cominciano a diradarsi le nubi, chi è dotato di un minimo di cultura finanziaria ricomincia a guardare ad asset class più rischiose ma anche più redditizie. Questo potrebbe porre fine alla corsa al Bund, tanto che gli analisti di Credit Suisse in un report pubblicato a dicembre invitano a essere cauti sui titoli tedeschi, i cui rendimenti sono previsti all’1,9% a fine anno dall’attuale 1,53%. Un aumento superiore al 20% che potrebbe portare a perdite sensibili se le cifre investite sul debito dio Berlino sono consistenti.

Ulteriore conferma della maggiore appetibilità dei fondi che investono in strumenti più rischiosi, come le azioni, magari dei Paesi emergenti, viene dai dati relativi ai fondi di investimento di diritto estero, come quelli targati BlackRock, Franklin Templeton o Fidelity, che offrono la possibilità di diversificare sui listini azionari di tutti i continenti. Secondo i dati di Assogestioni, i fondi esteri hanno raccolto più di 15 miliardi di euro tra dicembre 2011 e il novembre dell’anno seguente, e poco meno di 1,5 miliardi nel solo novembre del 2012. «I gestori internazionali sono stati molto bravi a generare ritorni positivi indipendentemente dalle fluttuazioni del mercato», chiarisce Fabrizio Meo di Tages, la società di gestione e advisory fondata nel 2010 da Panfilo Tarantelli e Sergio Ascolani, ex di Citigroup, e da Sandro Cordaro, proveniente dalle gestioni di Credit Suisse. Andamento opposto quello dei veicoli d’investimento di diritto italiano, che solo nello scorso novembre sono riusciti a riportare in territorio positivo la raccolta netta, e per soli 51 milioni, soprattutto grazie al contributo dei fondi obbligazionari, sostenuti dalla performance dei titoli di Stato italiani, il cui spread rispetto ai Bund tedeschi negli ultimi tre mesi non ha più oltrepassato la soglia di 370 punti base, nemmeno nei momenti di maggiore incertezza. Ma c’è un motivo ben preciso per il continuo deflusso di risorse dai fondi italiani: facendo essi capo nella stragrande maggioranza a gruppi bancari, hanno sofferto delle politiche di raccolta delle società capogruppo, attualmente con il fiato corto sul versante della liquidità, visto che gli impieghi superano la raccolta per circa 230 miliardi di euro. Di conseguenza le reti di distribuzione delle banche italiane cercano di spingere altri prodotti, come i conti di deposito, oppure i fondi a distribuzione di cedola, che spesso investono nelle obbligazioni emesse dalle stesse banche, a scapito dei fondi di investimento tradizionali. Ne è ulteriore conferma il fatto che nelle gestioni di portafoglio, più direttamente influenzate dalle politiche di distribuzione delle banche, nemmeno lo scorso novembre si è fermata l’emorragia di fondi, che negli ultimi 12 mesi ha sfiorato i 10 miliardi di euro. E, come conferma Pietro Giuliani nell’intervista a pag. 10, le banche italiane non stanno facendo più di tanto per spingere il risparmio gestito.

 

Date queste premesse quali sono le potenzialità per il 2013? Sui mercati gli ultimi sviluppi sembrerebbero favorire le gestioni professionali. Ma con alcuni distinguo. Sui principali mercati dei bond è forte il rischio di un aumento della volatilità, nonostante titoli come i Btp abbiano già reso circa il 20% nel 2012. La Spagna, oltre a essere alle prese con i problemi dei settori bancario e immobiliare, comincia a sentire il peso dei disavanzi delle regioni. L’Italia, ha il problema della crescita, senza la quale non è possibile stabilizzare i rapporti deficit/pil e debito/pil, il che renderà inevitabilmente nervosi i mercati. Nemmeno gli Usa sono al sicuro, non essendo ancora chiaro come il Congresso deciderà sulle politiche di rientro dal deficit pubblico. Questo certamente avvantaggia i gestori professionali rispetto agli investitori fai-da-te. Tuttavia può anche scavare un solco tra i gestori di stampo tradizionale, come la quasi totalità dei fondi di diritto italiano, che grazie ai Btp hanno generato un rendimento medio del 13% nel 2012, e quelli cosiddetti alternativi, che l’anno scorso non hanno reso più del 4-5%, una performance modesta rispetto ai prodotti cosiddetti long-only, ma anche rispetto alle gestioni passive degli Etf. Ma in cambio hanno ridotto al minimo le oscillazioni del valore del portafoglio. «Probabilmente il 2013 potrebbe vedere il ritorno a una gestione orientata a ridurre le perdite» aggiunge Meo.

Uno scenario alternativo potrebbe essere la crescita dei fondi azionari, specialmente di quelli che investono sull’Europa, i cui listini sono ritenuti dal consensus di mercato più a buon mercato rispetto a Wall Street. E nel Vecchio continente, proprio le azioni dei Paesi periferici orientati all’export, quindi l’Italia, sono quelli visti con favore da importanti gestori globali come BlackRock. Ma ciò richiede una profonda conoscenza delle singole aziende. Tanto che diverse società di gestione sono a caccia di talenti in grado di generare rendimenti aggiuntivi rispetto ai benchmark. Il grafico riportato in pagina 8 rivela che essere dei grandi gruppi bancari non è affatto garanzia di performance, anzi è vero quasi il contrario. Sono molto spesso le entità più piccole a dare i migliori risultati. Questo perché molto spesso le grandi banche sono guidate da strategie di breve termine poco propense a investire su orizzonti temporali più lunghi. I big della finanza americana sembrano avere capito la lezione e hanno deciso di investire. In Italia non sembra che le cose stiano andando nello stesso modo. Ecco perché il 2013 potrebbe essere l’anno dei gestori italiani, ma forse non di quelli bancari. (riproduzione riservata)