di Ray Fisman e Tim Sullivan

The Wall Street Journal Europe

Un tappeto da 90.000 dollari, un paio di sedie per gli ospiti che costano quasi la stessa cifra, un bagno da 35.000 dollari e una pattumiera da 1.400 dollari. Sono solo alcune delle spese fatte per ristrutturare l’ufficio di John Thain quando è diventato ceo di Merrill Lynch nel dicembre 2007. La fattura totale ha raggiunto la cifra sorprendente di 1,2 milioni di dollari, il prezzo medio di cinque case unifamiliari. Un anno dopo, queste spese di ristrutturazione hanno contribuito alle dimissioni di Thain, dopo che Bank of America ha comprato Merrill. Nel 2007 Thain ha ricevuto compensi per 78 milioni di dollari. Malgrado l’indignazione della gente e degli investitori, i salari dei ceo sono ancora in crescita. L’anno scorso Bill Johnson, ceo di Progress Energy, ha ricevuto un compenso di 44 milioni di dollari quando ha lasciato l’azienda in seguito alla sua fusione con Duke Energy, mentre Michael Jeffries, ceo di Abercrombie, ha avuto una retribuzione netta di 48 milioni di dollari nel 2011, mentre la quotazione del titolo precipitava bruscamente. Eccessivo, decadente? Difficile dare un giudizio, senza avere una vaga idea di quello che fa un ceo. Molti di loro sono pagati troppo o, peggio ancora, pagati per incompetenza. Eppure, si può apprezzare la differenza tra chi è pagato per la sua competenza e chi invece lo è per l’incompetenza. Cominciamo con le basi: come passano il tempo i top manager. Tra i primi ricercatori che hanno voluto dare uno sguardo alla vita di tutti i giorni dei ceo, troviamo il guru del management Henry Mintzberg. Mintzberg ha scoperto che, prima di tutto e soprattutto, i ceo vanno ai meeting. E qui passano più dell’80% delle loro ore lavorative. La cosa sorprendente è che la percentuale di tempo che i ceo passano nei meeting non è quasi cambiata in quarant’anni, nonostante le innovazioni come l’e-mail. Tuttavia dire che il lavoro di qualcuno come Jeff Bezos consiste nell’andare a molti meeting è un po’ come dire che Shakespeare ha scritto delle parole. È vero, ma un po’ troppo riduttivo per spiegare ciò che faceva, diciamo, Steve Jobs. Le riunioni rimangono il cuore della giornata di un ceo, dato che le interazioni personali sono critiche per apprendere le informazioni necessarie per gestire un’azienda in modo efficace. In uno studio del 2009, Ulrike Malmendier della University of California, Berkeley e Geoff Tate dell’Ucla hanno argomentato che le aziende avevano un basso rendimento dopo che i loro manager venivano nominati ceo dell’anno, a causa delle distrazioni derivanti dalla fama, come per esempio scrivere un libro e andare a Davos. Un ceo perfetto non si può distrarre; deve rimanere una grande fonte d’intelligenza, un grande comunicatore e fondamentalmente un grande decisionista. Ma i ceo sono veramente così più intelligenti (e migliori nel gestire le riunioni) di tutti noi? Può darsi, ma non è questa la giusta domanda da farsi. Per sostenere di valere, i ceo non devono in realtà essere tanto migliori degli altri in lizza per il ruolo. Nelle «economie superstar» come nel mercato dei ceo anche un piccolissimo vantaggio nell’abilità può tradursi in enormi profitti. Se le decisioni dei ceo hanno un impatto così sproporzionato sui profitti aziendali, si potrebbero essere più inclini a pagare molto per motivarli a rimanere ore extra in ufficio. E questa visione aiuta a spiegare molti dei privilegi che derivano dalla poltrona: il jet aziendale, che consente ai ceo di passare più tempo con i dipendenti nelle varie località, la limousine con autista, che dà loro tempo libero durante gli spostamenti giornalieri. Ma per quale ragione bisognerebbe pagare i ceo che vengono licenziati? Il cosiddetto paracadute d’oro si rifà al tentativo perfettamente ragionevole di spingere i ceo a creare più valore per le loro aziende. Introdotta da Twa nel 1961, la pratica è decollata durante l’ondata delle fusioni negli anni 80, quando i manager cominciarono a riflettere se fosse meglio cercare opportunità di fusione per fare guadagnare gli azionisti o continuare a mantenere la loro carica. La maggior parte dei ceo aveva optato per mantenere la carica, spesso a discapito del corso azionario. Di conseguenza, gli azionisti hanno dato ai ceo una via di fuga che li avrebbe incoraggiati a lavorare negli interessi a lungo termine delle loro aziende. Ma i manager la cui incapacità o indolenza rende le loro aziende mature per un’acquisizione sono spesso comunque ricompensati. Infatti le società dove i ceo sono protetti dai paracadute d’oro di solito trattano in borsa a livelli inferiori rispetto a quelle che non li hanno. Ma cosa dovremmo pensare di questi compensi per incompetenza? Invece di scuotere la testa di fronte all’ingiustizia, possiamo considerarlo come uno sfortunato effetto collaterale degli incentivi ben motivati. Ponderare compensi di fine rapporto in maniera più accorta è una buona idea, ma eliminarli del tutto potrebbe essere un vero danno. Vedere che i ceo prendono milioni per essere licenziati (e persino per perdere soldi) può essere difficile da digerire, ma è un danno collaterale per motivarli a gestire le aziende in maniera efficiente.

 

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