Il Pd non ha più una banca e il ciclone derivati su Mps ha rischiato di portare danni a tutto il mondo creditizio italiano. Per una tragica ironia della sorte il presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari, ha rassegnato le dimissioni «irrevocabili» dalla sua carica di numero uno dei banchieri, proprio nel giorno in cui gli istituti si preparavano a mostrare al Fondo monetario internazionale quanto trasparenti fossero i bilanci dei gruppi del Belpaese.

Non proprio il momento ideale per mostrarsi i migliori in Europa, mentre da Siena arrivavano i nuovi clamorosi sviluppi sul caso derivati che sta letteralmente rivoltando la banca più antica del mondo e forse anche la struttura locale dell’ex Pci. Il combattente calabrese, che già un paio di volte era stato in bilico, a cavallo dei due mandati all’Abi, prima per una richiesta di rinvio a giudizio per le vicende legate all’aeroporto di Siena e poi per gli sviluppi che hanno toccato la gestione precedente del Monte dei Paschi, non ha potuto ieri che mollare la presa. Erano diventate troppo forti le pressioni dei suoi associati per un suo passo indietro, soprattutto, come risulta a MF-Milano Finanza, nel momento in cui della trasparenza e del rigore il mondo creditizio stava facendo un vessillo da erigere davanti ai rilievi degli uomini guidati da Christine Lagarde.

 

«Ritengo di dover rassegnare, con effetto immediato e in maniera irrevocabile le dimissioni da presidente dell’Abi», ha scritto Mussari a Camillo Venesio, suo vice e forse successore, per ora reggente fino al prossimo comitato esecutivo. «Assumo questa decisione convinto di aver sempre operato nel rispetto del nostro ordinamento, ma nello stesso tempo, deciso a non recare alcun nocumento, anche indiretto, all’associazione. In questi tre anni ho cercato di servire l’associazione mettendo a disposizione tutte le energie fisiche e intellettuali di cui disponevo, usufruendo dell’insostituibile contributo della direzione e di tutti i dipendenti dell’associazione». Mussari non fa menzione nella lettera di commiato della sua attività passata come presidente di Mps e delle grane giudiziarie che presumibilmente gli si riverseranno contro se davvero a Rocca Salimbeni saranno costretti a redigere nuovamente gli ultimi bilanci di esercizio firmati proprio da lui. Un sospetto che è diventato un fardello insopportabile nella tarda serata di ieri.

E pensare che nel suo programma per il nuovo biennio di presidente dell’Abi, proprio sulla lotta ad armi pari (level playing field), Mussari puntava per sottolineare la forza delle banche italiane rispetto a quelle europee. La disputa per ottenere in casa un piano da gioco livellato riguarda le norme fiscali e l’intreccio di regole di vigilanza che impone agli istituti di rendere conto a tre diverse authority, come Bankitalia, Consob e Antitrust, mentre sul piano europeo il confronto è con l’Eba e il Fondo Monetario Internazionale.

Il duello con quest’ultimo è ricominciato proprio ieri, perché le lame si erano già incrociate a ottobre, quando l’Abi aveva contestato il raffronto tra la qualità del credito delle banche italiane e di quelle europee, contenuta nel Global Financial Stability Report. Una valutazione viziata, secondo l’Abi, da un errore di fondo, ossia dalla comparazione fra sistemi che rispondono a differenti principi contabili e diverse regole di vigilanza, come non mancò di osservare lo stesso Mussari in una lettera al direttore generale del Fondo, Christine Lagarde, rimasta però senza risposta.

 

Una circostanza che è stata ribadita non più tardi di 24 ore fa dal direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, agli inviati del Fondo, che hanno iniziato il loro tour in Italia per completare un nuovo rapporto da pubblicare a fine febbraio. Peccato che la posizione, giusta, delle banche italiane abbia rischiato di incrinarsi per le vicende di Siena e del suo ex presidente. Per questo, nonostante il sostegno di Unicredit, a Mussari non è rimasta che l’opzione di dimettersi: una sua resistenza avrebbe vanificato anni di battaglie della categoria, squassata dalla crisi ma ancora orgogliosa di essere in condizioni migliori di altri sistemi creditizi nella Ue.

Da mesi l’Abi aveva infatti messo in discussione la classifica dei crediti deteriorati in percentuale ai crediti concessi ai residenti. Le cifre ufficiali collocano l’Italia (con il 10,8%) dietro la Spagna che può vantare un percentuale più bassa (l’8,5%). Peccato che se il computo si allargasse ai crediti ristrutturati (compresi nel dato italiano ma non in quello spagnolo), la situazione si ribalterebbe, visto che il numero di crediti a rischio della Spagna salirebbe al 26%. Uno su quattro concessi. E non era l’unica discrepanza rilevata fra la situazione italiana e quella spagnola: anche l’analisi della quota di accantonamento a copertura del rischio di credito, se fosse valutata con i criteri italiani risulterebbe molto meno tranquillizzante per le banche iberiche. Considerazioni che faranno discutere a Washington come a Bruxelles, ma che da ieri restano inevitabilmente sullo sfondo di una brutta storia di finanza spericolata. (riproduzione riservata)