di Roberta Castellarin e Paola Valentini

L’Italia ha il suo Fiscal Cliff. È il baratro previdenziale in cui rischiano di cadere un mucchio di generazioni che passeranno alla storia come la peggio gioventù: poco lavoro, pochi contributi, assegno Inps pari a zero o quasi. E il brutto è che queste considerazioni, ben presenti tra gli addetti ai lavori e riportate con dovizia di particolari in questa inchiesta di MF/Milano Finanza, sono del tutto scomparse dal dibattito politico e dai temi della prossima campagna elettorale.

Nessuno dei leader candidati, Berlusconi, Bersani, Monti, ha ancora detto una parola chiara su come pensano di far campare il Paese più vecchio del mondo e con la disoccupazione giovanile che galoppa nei prossimi decenni. Eppure i segnali d’allarme ci sono da tempo.

La riforma delle pensioni è stato l’intervento più incisivo del governo dei tecnici guidato da Mario Monti. Una mossa che farà risparmiare alla Stato oltre 90 miliardi di euro da qui al 2021. Per ora non si vedono gli effetti sui conti pubblici perché fino al 2012 i lavoratori sono andati in pensione con le vecchie regole, ma già da quest’anno emergeranno le minori spese e dal 2014 i risparmi decolleranno come emerge dalla tabella in pagina. Ma la forza messa in campo per blindare i conti della previdenza pubblica non è stata anche adoperata per informare i cittadini di quanto era stato fatto.

Per l’Italia questa non è una novità. Quando nel 1996 è stato introdotto il sistema contributivo per i lavoratori assunti da quella data e il sistema misto per chi aveva meno di 18 anni di contributi, il futuro pensionistico di chi è nato dagli anni 60 in poi è stato segnato. Non è mai partita una vera campagna informativa. Gli italiani di 30-40-50 anni non sanno come, quando e quanto prenderanno di pensione.

La busta arancione, peraltro promessa solo negli ultimi anni, ancora non è partita e in una prima fase riguarderà solo i lavoratori sopra i 60 anni di età per i quali il problema dell’assegno non si pone (c’entrano per caso le elezioni imminenti?). Questa mancanza di informazione si può tradurre in una grande illusione, i lavoratori giovani si aspettano un futuro pensionistico simile a quello che hanno avuto i loro padri. Ma non è affatto così. Molti hanno forse interiorizzato il fatto che dovranno andare in pensione molto più tardi, ossia intorno ai 70 anni, ma pochi si pongono il problema dell’assegno. Adesso però la crisi sta rapidamente facendo capire le difficoltà cui andranno incontro le nuove generazioni, non solo sul fronte previdenziale, ma nel complesso delle tutele del welfare. Spiega proprio il Censis nell’ultimo rapporto sul welfare: «I giovani sono una generazione che sulla paura delle ridotte tutele, di un welfare che non copre i bisogni sociali che più li preoccupano costruisce una parte importante della propria percezione sociale della vita». Infatti, secondo un sondaggio del Censis il 69% ritiene molto o abbastanza probabile rimanere a lungo inoccupato, il 55% ritiene molto o abbastanza probabile vivere per un lungo periodo in gravi difficoltà economiche e, per il più lungo periodo, quasi l’85% ritiene che non avrà una pensione adeguata in futuro. «È evidente che di fronte a paure sociali così radicate e diffuse, al timore di rimanere scoperti, da soli ad affrontarli, si finisca per ricorrere alla famiglia, al suo grande ombrello protettivo, laddove esiste.

E per il futuro il rischio è un ulteriore aggravamento di questa situazione: infatti, oltre il 59% ritiene che nel futuro, i prossimi tre-cinque anni si avrà una diminuzione dell’ampiezza della copertura pubblica di sanità, previdenza, istruzione, ed è invece il 73% dei giovani di età compresa tra 18 e 29 anni a pensare che nel futuro per far fronte ad eventuali rischi o eventi imprevisti che potrebbero coinvolgere l’intervistato e relativa famiglia, confida soprattutto nella capacità di adattamento della famiglia alle nuove necessità e oltre il 41% addirittura nell’aiuto da parte di familiari, parenti, amici». Ma anche la rete familiare non dà più garanzie come una volta.

È per questo che bisogna organizzarsi per tempo al rischio che il welfare italiano non sopravviverà alla crisi. A partire dalla previdenza. E mentre nel retributivo è previsto un trasferimento dello stato per integrare gli assegni da erogare, nel contributivo l’ente previdenziale deve camminare con le sue gambe senza quindi alcun intervento da parte dello Stato. Che finora è stato molto generoso, ma non sarà più così. Negli ultimi dieci anni i trasferimenti dello Stato agli enti pensionistici pubblici sono costantemente saliti del 2,5% l’anno arrivando a 33,6 miliardi nel 2010, mentre in totale la spesa pensionistica, che include anche i trasferimenti, è salita a 232 miliardi a fine 2010 con una crescita media del 3,7% all’anno dal 2003. Se da una parte rinviare la data dell’addio al lavoro infatti consente di accumulare maggiori contributi e di avere un montante più ricco, questo viene poi rivalutato in base alla media quinquennale del pil. Un’economia che non cresce, o che addirittura perde punti di pil, comporta pensioni più povere. Banca d’Italia per il 2013 si aspetta per il 2013 un’ulteriore contrazione dell’economia del -1%. Lo stretto legame tra pensioni e pil fa sì che anche la sicurezza che il sistema permetta di dare assegni decorosi non c’è.

Un dato su tutti. Nel 2010 i lavoratori dipendenti andavano in pensione con oltre il 72% dell’ultimo stipendio, nel 2020 si scenderà al 66% (nel 2040 al 63%) in base alle stime della ragioneria dello Stato (che peraltro stimano un tasso di crescita reale del pil annuo dell’1,57%). La spada di Damocle del pil emerge anche da un recente studio presentato all’Università di Pavia da Laura Dragosei (Centro Europa ricerche), Sergio Ginebri (Università di Roma Tre), Rosa Lipsi (Istat, università del Molise) e Christian Mongeau Ospina (Università di Roma Tre). Lo studio riflette su come si è arrivati al nuovo impianto normativo e su quanto questa riforma abbia contribuito a migliorare i conti dello Stato. In questo senso in vista del Fiscal Compact ha avuto un ruolo essenziale l’abolizione della pensione di anzianità e lo stop all’indicizzazione delle pensioni pari a tre volte il minimo, mentre in un’ottica di più lungo termine è proprio l’addio alla pensione di anzianità a giocare un ruolo chiave.

L’analisi presentata a Pavia parte proprio dalla rivoluzione che ha riguardato il sistema pensionistico dal 2010 in poi: «Nel biennio 2010-2011 si sono susseguiti almeno quattro maggiori interventi normativi in campo pensionistico. Il sistema risulta semplificato e razionalizzato, grazie all’uniformazione dei requisiti anagrafici e contributivi di pensionamento per dipendenti, pubblici e privati, lavoratori autonomi, uomini e donne». Resta aperto il problema del pil: «A dispetto dei profondi interventi realizzati negli ultimi due anni, che hanno inciso sia sulla spesa di breve periodo che su quella di lungo periodo, la spesa in rapporto al pil non si riduce. La fonte dell’espansione della spesa va ricercata nel protrarsi di fasi di stagnazione alternate a fasi di recessione della produzione. Il sistema pensionistico italiano è ormai fra i più solidi in Europa. Ciononostante non possono essere esclusi futuri ulteriori interventi mirati alla riduzione della spesa, se stagnazione e recessione non avranno termine. I maggiori rischi di instabilità futura della spesa pensionistica, quindi, non vengono dalla eccessiva generosità dei trattamenti pensionistici futuri, ma dal deludente andamento della produzione nazionale».

La riforma lascia poi aperti altri nodi che riguardano l’equità. Sottolineano gli esperti: «L’altra rilevante questione degna di attenzione riguarda l’eterogeneità della speranza di vita fra ben definiti gruppi sociali. La principale virtù attribuita al metodo di calcolo contributivo dai suoi sostenitori è la sua equità attuariale. Ad ogni euro di versamento contributivo corrisponde un euro di trattamento pensionistico e questo elimina le rilevanti iniquità prodotte dal metodo di calcolo retributivo. Il principio di equità che sottende il metodo di calcolo contributivo viene tuttavia contraddetto dalla differenziazione sociale della speranza di vita. Varie evidenze empiriche mostrano che i lavoratori manuali e quelli con basso livello di istruzione hanno una speranza di vita ridotta rispetto al resto della popolazione. Non tenere conto di queste differenze e applicare a tutti la stessa speranza di vita implica un trasferimento di risorse implicito dai più poveri e i meno istruiti ai più ricchi e ai più istruiti», si legge nello studio.

Anche il meccanismo di aggiornamento periodico, triennale e poi biennale dei coefficienti di trasformazione del montante in rendita per adeguarli ai mutamenti della speranza di vita porta a degli squilibri tra lavoratori nati nello stesso anno. «I coefficienti di trasformazione aggiornati si applicano a tutti coloro che vanno in pensione dopo la data di entrata in vigore dei nuovi parametri. Ciò finisce per generare una disuguaglianza di trattamento tra individui che abbiano la stessa età ma decidano di andare in pensione prima o dopo l’entrata in vigore dei coefficienti aggiornati. La questione potrebbe essere risolta se i coefficienti di trasformazione aggiornati venissero applicati non ai lavoratori che si pensionano oltre una certa data ma a tutti i lavoratori di una certa generazione, cioè nati nello stesso anno».

La ricerca mette in rilievo un altro dato interessante: le donne e il loro ruolo nella società. Sono infatti proprio loro a pagare il prezzo più salato per la riforma, perché sono quelle che hanno visto allontanarsi di più la data di addio al lavoro. «In effetti la riforma Fornero provoca un significativo aumento dell’età media dei nuovi pensionati. Concentrandosi sul settore privato negli scenari pre e post-riforme, si nota che l’incremento più consistente riguarda le donne: in soli 15 anni (tra il 2011 e il 2026) l’età media passa da 60 anni e 4 mesi a 64 anni e 3 mesi. Dalla seconda metà degli anni 2020 e fino a fine del periodo di simulazione si ha una ulteriore crescita di tre anni dell’età media delle donne, tuttavia il tasso di incremento annuale è ridotto rispetto al periodo precedente». Continua l’analisi: «La riforma Fornero determina un incremento aggiuntivo dell’età media, pari a poco più di un anno e mezzo per gli uomini e a circa quattro anni e mezzo per le donne. Nel nostro scenario di previsione le donne continuano a registrare, rispetto agli uomini, carriere lavorative mediamente più discontinue. A parità di età, quindi, la loro anzianità contributiva è minore e questo limita il loro accesso al pensionamento anticipato per anzianità contributiva. Il canale di pensionamento privilegiato per le donne rimane quello di vecchiaia, e questo spiega la maggiore età media al pensionamento delle donne», chiosano gli esperti.

La carriera discontinua riguarda anche i giovani italiani. Discontinuità che si paga a caro prezzo nel contributivo. Tutte le simulazioni presentate nei documenti istituzionali si basano infatti su una continuità di carriera. Ma in caso di buchi contributivi l’effetto sia sull’assegno finale sia sulla data di addio al lavoro è significativo e bisogna tenerne conto quando per capire quale pensione aspettarsi. (riproduzione riservata)