Pagina a cura DI DUILIO LUI

«Basta con l’egemonia delle agenzie di rating »; «Pagelle piene di pregiudizi»; «Class action per i danni inferti ai piccoli risparmiatori». Sono solo alcune delle accuse mosse da autorevoli analisti dopo che Standard&Poor’s ha bocciato metà eurozona, facendo ripiombare i mercati nel panico. Se le rimostranze non sono prive di fondamento, alla luce degli errori commessi negli ultimi anni dalle grandi agenzie di rating e dei confl itti di interesse derivanti dalla loro compagine azionaria, è pur vero che le stesse mantengono intatto il loro peso nell’orientare gli investitori. Come nascono le «pagelle». La quasi totalità del mercato del rating è in mano a tre grandi compagnie: Standard and Poor’s, Moody’s e Fitch. Il loro compito, volendo semplifi care al massimo, è di emettere «pagelle» sulla solvibilità dei debitori (società e stati) sottoposti a giudizi, in modo da fornire agli investitori un criterio di orientamento sui rischi che si corrono. Le agenzie valutano l’entità del rischio di credito, diviso in due grandi voci: il rischio commerciale e quello legato al paese. Il voto è espresso sulla capacità del debitore di far fronte al rimborso del debito e viene espresso con una scala alfabetica: per i fi nanziamenti a lungo termine, la scala adottata da Moody’s e da Standard & Poor’s va da «AAA» (massima affi dabilità) a «D». Per i debiti a breve, Fitch aggiunge un sistema inverso, che va da F1+ (migliore) a D. Oltre al giudizio sintetico, le agenzie emettono l’outlook, che può essere positivo, negativo o stabile, e indica un’aspettativa di lungo termine sulla probabilità che un evento infl uenzi l’affi dabilità di un’emittente come debitore. I rating sono importanti non solo per orientare i risparmiatori privati, ma anche perché molti investitori istituzioni come i fondi comuni e i fondi pensione adottano statuti che impongono loro di investire in titoli con un rating minimo. Così, quando c’è un downgrade (abbassamento del giudizio), questi investitori sono costretti a vendere in ogni caso, di fatto amplifi cando i cali dei titoli interessati. Le Big three sotto la lente. Cresciute a colpi di acquisizioni, le Big three del settore si sono costruite una reputazione crescente fornendo informazioni inedite al mercato. Attraverso visite dirette agli emittenti del debito, infatti, ottenevano informazioni a cui nessun altro aveva accesso, elaborandole anche grazie a elevate professionalità e sistemi informatici innovativi. Questo valore aggiunto, tuttavia, si è affi evolito negli ultimi anni: la diffusione di internet ha reso più semplice reperire informazioni e confrontarsi con gli analisti; il resto lo hanno fatto gravi errori commessi dalle stesse agenzie durante la grande crisi. L’esempio più lampante è costituito da Lehman brothers, che nei giudizi delle Big three godeva del livello di affi dabilità «A» fi no a pochi giorni dalla dichiarazione di insolvenza. Salvo poi assistere a un immediato downgrade quando a tutti era ormai chiara la drammaticità della situazione. E non si è trattato della sola cantonata presa: già in passato, in occasione di altri grandi crack fi nanziari come Worldcom ed Enron negli Stati Uniti e Parmalat in Italia, i signori delle pagelle non avevano saputo segnalare per tempo i rischi in corso. Dubbi sulla terzietà dei giudizi. C’è poi un altro aspetto che sta offuscando l’immagine delle tre grandi agenzie di rating: il sospetto di mancata indipendenza nelle decisioni. Un rischio inevitabile quando a retribuire i giudici sono gli stessi emittenti del debito. Così si rischia un cortocircuito tra controllati e controllori. A questo si aggiunge la compagine azionaria delle aziende in questione che, per quanto diversifi cata, vede tra i soci forti alcuni dei grandi nomi della fi nanza internazionale, con molteplici interessi in vari settori. A cominciare da Standard & Poor’s, controllata dal colosso americano dell’informazione McGraw-Hill, con azionisti come il gestore di fondi Capital World e altre realtà fi nanziarie come Vanguard, State Street, BlackRock oltre a Morgan Stanley investment e Pioneer. Non è da meno Moody’s, che vede come azionista principale la Berkshire Hathaway, società del finanziere più ascoltato a Wall Street (nonché terzo uomo più ricco al mondo) Warren Buffet e come altri azionisti di rilievo grandi nomi della fi nanza come Capital Investor, State Street, Vanguard e Blackrock (che, dunque, giocano su due tavoli in teoria concorrenti). Infi ne c’è Fitch, controllata dal gruppo francese Fimalac e dal colosso statunitense dell’editoria Hearst. Dal canto loro, le agenzie respingono le accuse sottolineando che passano al setaccio i conti di circa 2 milioni di aziende ogni anno, per cui tanto gli errori di valutazione, quanto i nomi delle aziende in possibile confl itto di interesse con i propri azionisti sarebbero di scarso rilievo nel quadro complessivo. Quale alternativa. A fronte di questi errori e dubbi sulla terzietà del giudizio, perché le Big three restano tanto infl uenti? È la domanda che in tanti si fanno, ma che fi nora non ha trovato una risposta chiara. Così come non ha trovato seguito l’ipotesi di trasferire il ruolo di giudice al Fondo monetario internazionale o di istituire un’agenzia di rating europea, in concorrenza con le americane. Probabilmente incidono diversi fattori, a cominciare dal fatto che un mercato in cerca di bussole per orientarsi a fronte di notizie che si susseguono contrastanti ogni ora, queste indicazioni continuano a risultare utili. Ma, sottolineano diversi economisti, questa situazione in fondo fa comodo anche agli investitori, che non devono andare a cercare le informazioni più esclusive, perché sanno già che il mercato seguirà il giudizio delle agenzie di rating