Anche per i lavoratori marittimi gli infortuni sul lavoro sono in flessione. Secondo quanto evidenziato dai dati principali dal “Secondo rapporto pesca” – documento che fa riferimento al periodo 2004-2008 (ultimi dati disponibili) – nella piccola pesca gli incidenti sono scesi dell’8% (dai 405 del 2004 ai 374 del 2008), mentre in quella in alto mare del 32%. I casi mortali sono rispettivamente 17 e 35. Nell’andamento complessivo, tuttavia, può incidere sensibilmente il fenomeno della sottodenuncia. Sul versante delle malattie professionali, è da sottolineare la forte prevalenza di patologie muscolo-scheletriche nella popolazione dei pescatori (circa il 60% del totale). Le informazioni relative agli infortuni sul lavoro registrati nel comparto provengono quasi esclusivamente dai due Istituti assicuratori, INAIL ed ex Ipsema, che – fino all’entrata in vigore della L. n. 122/2010, che li ha unificati – avevano ambiti di “copertura” distinti: l’INAIL la pesca in acque interne, la piccola pesca marittima (lavoratori autonomi o cooperative con natanti fino a 10 tonnellate di stazza lorda) e le attività complementari di vallicoltura, miticoltura e ostricoltura e l’ex Ipsema la pesca in mare aperto condotta con natanti di stazza lorda superiore alle 10 tonnellate e, in generale, i lavoratori dipendenti

Carico e scarico merci tra le attività pericolose. L’INAIL individua per la piccola pesca quali luoghi principali di infortunio non quelli sull’acqua (29%) bensì quelli a terra (71%), dove si concentrano le principali operazioni di carico e scarico merce (16%). In base all’attività fisica specifica risulta che l’80% degli infortuni avviene per il trasporto manuale (28%): attività che comprende tanto il carico/scarico merci quanto lo spostamento di oggetti sull’imbarcazione; la manipolazione di oggetti e il lavoro con utensili a mano (rispettivamente il 22% e il 10%); i/la movimenti/presenza (20%): attività che vanno dal compiere movimenti al semplice essere presenti sul posto di lavoro.

Alta percentuale di traumi dalle gravi conseguenze. L’ex Ipsema individua come maggiore luogo di infortunio la navigazione in mare aperto, circa l’86% (dati 2007). Le parti del corpo più colpite sono mani e dita – in generale gli arti – che risultano le più vulnerabili (56,4% degli eventi). Dal punto di vista della gravità degli infortuni, si noti che il 16,4% ha provocato delle conseguenze gravi (grado di inabilità compreso tra 6 e 100 o morte). Le lesioni a mani e dita sono in gran parte riconducibili al maneggio di cavi e attrezzature da pesca, soprattutto all’uso di verricelli e cavi in trazione. Oltre il 60% degli eventi è avvenuto per “schiacciamento in movimento verticale o orizzontale”. Nel complesso, dunque, si può affermare che circa la metà degli infortuni accade a seguito di una caduta, dovuta prevalentemente a scivolamento o inciampamento.

Italia un “colosso” nel settore ittico. L’Italia è tra le più importanti potenze pescherecce del Mediterraneo, con circa il 50% della produzione totale. La produzione ittica, compresa l’acquacoltura, dopo un significativo periodo di flessione dal 2003 al 2008 – pari al 10,8% – nel 2009 ha registrato un lieve incremento toccando quota 475mila tonnellate (rispetto alle 464mila dell’anno precedente). In generale, la contrazione complessiva sarebbe stata anche superiore senza l’apporto dell’acquacoltura: quest’ultimo comparto rappresenta il 51,1% della produzione del 2008 ed è cresciuto dal 2003 del 23,9%. La pesca marittima (senza l’allevamento), la cui produzione nel 2008 è stata pari a circa 227.000 tonnellate, nel 2008 ha subito di contro una diminuzione di oltre il 31% e (se si trascura l’incremento del 5% registrato tra il 2005 ed il 2006) le catture sono sempre risultate in calo. Nel 2008 – ultimo anno di osservazione considerato – il decremento va ricondotto principalmente alla riduzione della flotta peschereccia, alla diminuzione delle giornate di lavoro conseguenti al rincaro del costo del carburante.

Pirateria: l’anno del boom. Al di là delle varie tipologie di incidenti che possono interessare i marittimi, il 2011 ha evidenziato in modo eclatante quanto sia precaria – su particolari rotte oceaniche – la sicurezza di questi lavoratori a causa del fenomeno criminale della pirateria. Questi ultimi dodici mesi, infatti, solo per quanto l’Italia, hanno visto il sequestro di cinque navi con i rispettivi equipaggi: la “Savina Caylyn”, la “Rosalia D’Amato”, la “Anema e core”, la “Montecristo” e la “Enrico Ievoli”. Tutti i navigli erano operativi nell’area delicatissima del Corno d’Africa, da sempre temuta per la recrudescenza degli attacchi dei pirati somali. Quattro sequestri sono stati risolti positivamente (in un caso, quello della “Montecristo”, il pericolo è durato solo poche ore; per l’equipaggio della “Savina Caylyn”, invece, liberato lo scorso 21 dicembre l’angoscia è durata oltre nove mesi). Resta ancora aperta, invece, la situazione relativa alla “Ievoli”, finita nelle mani dei criminali lo appena quattro giorni fa. Il suo equipaggio è composto da sei italiani – tutti siciliani -, cinque ucraini e sette indiani.

Scorte armate della Marina a tutela di navi ed equipaggi. I casi di cronaca sono diventati di portata talmente eclatante da avere spinto, lo scorso 11 ottobre, l’allora ministro della Difesa, Ignazio La Russa, e Confitarma, la Confederazione degli armatori, a firmare un protocollo d’intesa che prevede la possibilità di utilizzare dieci nuclei della Marina militare (ciascuno composto da sei unità) in qualità di “scorta armata” sui mercantili in transito nei mari “a rischio” (il servizio è a pagamento).

Un fenomeno in continuo aumento in tutto il mondo. Si calcola che nel 2011 – a livello mondiale – sia stato registrato il sequestro di una nave al giorno da parte dei pirati. Da un punto di vista storico il fenomeno – dopo una fase di discesa costante dovuta al maggior controllo operato dalle Marine di tutto il mondo – da tre anni è in forte aumento. Se nel 2007 le incursioni dei pirati erano state 263, nel 2010 sono risultate 445 le imbarcazioni attaccate (il 10% in più rispetto alla stagione precedente), con 219 tentativi di abbordaggio, 49 sequestri di navi e 1.181 marittimi presi in ostaggio. Se ogni caso di riscatto ha un costo medio per l’impresa armatoriale di circa 5,9 milioni di dollari, l’ammontare totale raggiunge, dunque, un totale di circa 238 milioni di dollari. Si tratta solo di una delle tante voci “in perdita” legate a questa attività criminosa che – tra investimenti per la sicurezza degli equipaggiamenti, polizze assicurative, spese processuali e costi legati alle rotte alternative per evitare i pericoli – secondo il think tank statunitense One Earth Future – arriva a pesare sulla comunità internazionale una cifra che oscilla tra i sette e i dodici miliardi di dollari l’anno.

Fonte: INAIL