di Roberta Castellarin e Paola Valentini

L’Italia da anni è un treno che rallenta. Ora si è addirittura fermato. E se non riparte, presto chi oggi ha meno di 50 anni dovrà fare i conti con povere pensioni perché su quel treno viaggiano anche i suoi contributi previdenziali. Le future pensioni, quelle che saranno determinate totalmente dal regime contributivo, sono agganciate all’andamento dell’economia. I contributi infatti vengono rivalutati in base alla media quinquennale del Pil. E d’altra parte l’allungamento della vita lavorativa previsto dalla riforma Fornero, che fa accumulare più contributi, però di fatto è compensato dalla revisione dei coefficienti di trasformazione in rendita che abbassano l’assegno. Di qui l’importanza della crescita economica per l’entità dell’importo della pensione pubblica. Una stagnazione prolungata dell’economia italiana taglierebbe l’assegno futuro dei lavoratori fino al 25%. Tanto più che questi ultimi devono già fare i conti con l’eredità del biennio 2008-2009, due anni di profonda recessione che ancora pesano sulle medie quinquennali del pil utilizzate per rivalutare i contributi. Come ricorda il presidente della Covip Antonio Finocchiaro: «Le stime di crescita del Pil per il 2011 e per il 2012 appaiono insufficienti a compensare la caduta dell’attività registrata negli ultimi anni». Già nel 2010 la Covip provava a stimare l’impatto sugli assegni della caduta del pil italiano registrata nel 2008 e nel 2009 (meno 6,3% complessivo): «Rispetto a una crescita dell’1% reale all’anno e in assenza, negli anni a venire, di un recupero della caduta accusata, la perdita per tutti i lavoratori per i quali si applica il metodo contributivo è nell’ordine dell’8,5% dei contributi finora versati». La situazione migliora invece per chi beneficia ancora in parte del metodo retributivo, che però di fatto si è interrotto nel 2011. Infatti dal gennaio di quest’anno la riforma Fornero ha esteso a tutti i lavoratori il metodo contributivo, anche se in forma pro quota per chi al 31 dicembre 1995 aveva maturato più di 18 anni di contributi. La rivalutazione in base al Pil pesa di più per chi ricade nel metodo misto (coloro che al 31 dicembre 1995 erano già occupati ma non aveva maturato più di 18 anni di contributi): per questi lavoratori dal 1996 è in vigore il metodo contributivo. Mentre gli assunti dopo il 1° gennaio 1996 sono esposti totalmente alle oscillazioni del Pil perché per loro vale fin dal primo giorno di lavoro il metodo contributivo. In base al quale la pensione si calcola moltiplicando il montante dei contributi versati per un coefficiente di trasformazione rapportato all’età dell’assicurato al momento del pensionamento. Il montante è costituito dalla quantità di contributi che il dipendente ha versato assieme al datore di lavoro. L’importo contributivo viene poi rivalutato al 31 dicembre di ogni anno in base a un tasso di capitalizzazione virtuale che è pari alla media del pil nominale degli ultimi cinque anni: è quindi evidente che un pil in recessione riduce la media quinquennale perché il valore negativo si ripercuote per i cinque anni successivi alla crisi, tenendo comunque molto basse le percentuali di rivalutazione. «La serie storica (vedere grafico in pagina, ndr) mostra il coefficiente di rivalutazione dei contributi, in termini reali, pari alla media quinquennale del Pil. Le crisi del biennio 2008-2009, rispettivamente meno 1,2% e meno 5,5%, unite alla scarsa crescita degli anni 2010-2011, rispettivamente 1,8% e 0,4%, e alle previsioni Eurostat 2012-2013 (meno 1,3% e 0,7%), portano le medie quinquennali di questi e dei prossimi anni in terreno negativo», sottolinea Andrea Carbone della omonima società di consulenza indipendente. I contributi previdenziali si potrebbero quindi rivalutare meno dell’inflazione. «Da un punto di vista macroeconomico, molti invitano a riflettere sulle potenzialità, in termini di Pil, di un Paese in via di progressivo invecchiamento come il nostro e come altri Paesi occidentali. Sebbene l’analisi dei grafici storici abbia un valore relativo, la tendenza suggerita dai dati 1976-2013 mostra un trend decrescente: se la media degli ultimi 30 incrementi quinquennali è stata dell’1,6%, quella degli ultimi dieci è infatti scesa allo 0,5%», aggiunge Carbone. Qui entra in gioco anche un altro problema: oggi le stime pubbliche sul tasso di sostituzione, ovvero sulla percentuale dell’ultimo stipendio che si avrà come pensione, si basano su un Pil medio dell’1,5% che appare ormai superato. Progetica ha calcolato per MF-Milano Finanza una stima di come potrebbe cambiare il tasso di sostituzione al variare delle previsioni del Pil, a parità di parametri demografici e lavorativi. Nell’ambito del regime contributivo gli effetti della recessione sono differenti a seconda che il lavoratore sia più o meno vicino all’età della pensione. «Simulando un Pil futuro medio di 0, 1% e 2% è possibile notare come il tasso di sostituzione atteso presenti notevoli variazioni, comprese tra 8 e 25 punti percentuali. Il tema della crescita, assai dibattuto in queste settimane, apparirebbe pertanto cruciale non solo per le tematiche di occupazione e di sviluppo, ma anche per quelle dell’adeguatezza del tenore di vita dei futuri pensionati», prosegue Carbone. In particolare le oscillazioni, per i dipendenti che hanno di fronte a sé lunghi periodi, possono sfiorare 25 punti percentuali di tasso di sostituzione. Come dire che una settimana su quattro di copertura del proprio tenore di vita mensile può dipendere dall’andamento del pil. È il caso di un dipendente di 30 anni: la percentuale dell’ultimo stipendio che percepirà scende dal 76% al 51% se il pil anziché crescere del 2% medio resta al palo, mentre per un cinquantenne la decurtazione è del 13% con il tasso di sostituzione che si abbassa dall’81 al 68%. Uno scenario preoccupante, quello della bassa crescita economica prolungata, che però oggi non appare così irrealistico: «Complici le considerazioni sulle potenzialità economiche di un Paese in via di invecchiamento come il nostro, il pil dei prossimi anni difficilmente potrà tornare ai livelli degli anni Settanta o Novanta», aggiunge Carbone. «Per tutti coloro che investono i propri contributi nell’Inps, sembrerebbe pertanto opportuno valutare l’opportunità di diversificare il portafoglio pensionistico attraverso forme previdenziali alternative per minimizzare il rischio finanziario legato al pil». Ecco perché la tanto invocata crescita economica è fondamentale anche per mettere le basi per il welfare futuro. Linee guida della previdenza europea sono la sostenibilità dei sistemi pensionistici ma anche l’adeguatezza dei trattamenti erogati. Delle due l’una: o si riesce a far crescere il pil o si mettono in pista fattori correttivi sulla mancata rivalutazione del montante contributivo. A ciascuno la propria colpa: il macigno del debito pubblico, la flessibilità forzata, il lavoro che non colma la necessità di risparmiare per la previdenza integrativa. La mancata rivalutazione delle pensioni sarà l’ennesimo boccone avvelenato che le vecchie generazioni lasciano in eredità ai giovani. Qui l’equità tra generazioni, promessa dal governo, non torna. Proprio il governo punta sul rilancio dei fondi pensione che possono rappresentare anche un volano per la crescita economica, oltre che un mezzo per rimpinguare l’assegno pubblico. E qui il lavoratore dipendente ha a disposizione innanzitutto il Tfr che può versare ai fondi pensione, anc
he senza contributi aggiuntivi, anziché lasciarlo in azienda dove si rivaluta in base al tasso di inflazione. Progetica mostra l’impatto del conferimento del Tfr ai fondi pensione sul tasso di sostituzione, ovvero la percentuale della prima pensione rispetto all’ultimo stipendio. «Le stime sembrano suggerire che il conferimento del Tfr possa essere un prezioso alleato per migliorare la propria integrazione pensionistica. Una considerazione trasversale infine: le stime sulla previdenza pubblica e sull’uso del Tfr si basano sull’ipotesi di continuità lavorativa dai 25 ai 66-68 anni. In caso di buchi contributivi e periodi di inattività tutte le stime sarebbero destinate a scendere. Il tema dunque non è solo pensionistico, ma di welfare complessivo», conclude Carbone. (riproduzione riservata)