di Leonardo Comegna 

 

La crisi affama le pensioni. La scarsa crescita del Pil, infatti, si ripercuote sulla rivalutazione dei contributi versati all’Inps, che serviranno un domani a calcolare la pensione. L’ultimo dato fornito dall’Inps nel messaggio n. 2626/2014 riguarda i contributi versati nel 2012: la rivalutazione avverrà al tasso dello 0,1643%. Praticamente una miseria e anche meno dell’Istat (Bot e Poste hanno dato di più!). Ciò vuol dire che chi nel 2012, guadagnando 20 mila euro, ha versato all’Inps 6.600 euro di contributi (33%) se era un dipendente ovvero 4.260 euro (21,30%) se era commerciante o artigiano ovvero 5.400 euro (27%) se era un professionista senza cassa o co.co.pro, oggi nel salvadanaio Inps ci trova rispettivamente 6.611 euro (11 euro in più), 4.267 euro (7 euro in più) e 5.409 euro (9 euro in più).

Colpiti soprattutto i giovani. La questione interessa da vicino i giovani. Ossia coloro che hanno cominciato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995 e che rientrano appieno nel criterio di calcolo della pensione cosiddetto «contributivo». La riforma Fornero dal 1° gennaio 2012 ha esteso a tutti, indistintamente, il criterio contributivo; anche ai lavoratori meno giovani e che per questo ancora fruivano del vecchio criterio cosiddetto «retributivo» (e continuano a fruire sulle anzianità contributive fino al 31 dicembre 2011). Il meccanismo di calcolo contributivo è abbastanza semplice. Tre i parametri di riferimento: la retribuzione, la cosiddetta aliquota di computo e il coefficiente di trasformazione del montante contributivo. In pratica, con il versamento dei contributi il lavoratore accantona il 33% (aliquota di computo dei dipendenti) della retribuzione. Ciò avviene mese per mese, anno per anno, andando a formare il cosiddetto «montante contributivo». Montante che è soggetto a rivalutazione annuale sulla base della dinamica quinquennale del Pil (il prodotto interno lordo). Qui sta il trucchetto: il Pil non è l’Istat che misura il potere di acquisto. Il Pil riflette la capacità di un paese di far girare l’economia. Questa capacità scarseggia, ultimamente, un po’ per la crisi economica e un po’ per altre ragioni. E dunque anche il Pil non cresce, comportando, di conseguenza, una scarsa rivalutazione (cioè guadagno) dei contributi accumulati all’Inps.

Alla data del pensionamento, al montante accumulato pari alla somma dei versamenti contributivi effettuati e rivalutati periodicamente si applica un coefficiente che converte quei contributi in pensione. La misura del coefficiente è correlata all’età ed è aggiornata periodicamente per legge. L’ultima rivisitazione (al ribasso) c’è stata a partire dal 1° gennaio 2013. Oggi, pertanto, le misure spaziano tra il 4,661%, per chi sceglie di lasciare il lavoro a 60 anni, il 4,940% per chi resiste fino a 62 anni fino ad arrivare al 5,826% per chi decide di arrivare fino a 67 anni.

I coefficienti di rivalutazione. Come accennato, il montante contributivo si ricava applicando alla base imponibile (retribuzione, o reddito) l’aliquota di computo: 33% per i lavoratori dipendenti, 22,20% per gli autonomi (che salirà al 24% del 2018) e 28% per i co.co.pro. iscritti alla gestione separata Inps (aliquote del 2014). La somma ottenuta si rivaluta su base composta al 31 dicembre di ogni anno, con esclusione della contribuzione dello stesso anno, al tasso di capitalizzazione pari alla variazione media quinquennale del prodotto interno lordo (Pil) nominale. L’Inps ha comunicato il tasso di capitalizzazione valido per l’anno 2014: 1,001643, media Pil del quinquennio precedente. Con questo indice va rivalutato il montante maturato alla data del 31 dicembre 2012 per chi va in pensione quest’anno.