di Paola Valentini
Oggi sembra lontana anni luce, ma non è così. Lo slittamento di un anno dell’entrata in vigore della Mifid II, che sarà operativa a inizio 2018, rischia infatti di creare un limbo in una fase in cui invece scelte strategiche nell’asset management andrebbero prese proprio considerando la rivoluzione che porterà la direttiva europea 2014/65/Ue del 15 maggio 2014 (cosiddetta Mifid II). La quale introduce la consulenza su base indipendente vietando la retrocessione delle commissioni (oggi le società di gestione girano alla rete una parte delle commissioni di gestione pagate dal cliente). La consulenza su base indipendente non è necessariamente un’esclusiva propria di una particolare figura professionale ad hoc; piuttosto, sarà ciascuna impresa a poter scegliere quale forma di consulenza (indipendente o meno) proporre ai risparmiatori. La Mifid II richiede a ciascun consulente di dichiarare preventivamente al proprio cliente il tipo di servizio che andrà a prestare (in particolare, se si tratta o meno di consulenza indipendente).

Un’evoluzione considerevole, quella della nuova direttiva, che non è soltanto limitata alla segmento della distribuzione finanziaria. Anche l’altra faccia dell’industria dell’asset management, ovvero la fabbrica prodotto, è chiamata in causa. La normativa infatti, alla fine dei conti, tenderà a creare un legame ancora più stretto tra produzione e distribuzione. Ecco perché oggi la tendenza in atto di separazione tra le società di gestione (sgr), dove i fondi vengono creati e gestiti, e le reti distributive sembra essere messa in discussione dalla nuove regole della Mifid II. «Dal recente documento di consultazione Esma, che precisa le modalità applicative delle regole di product governance, emerge l’obbligo in capo al produttore di definire il mercato target di un determinato prodotto con un elevato livello di dettaglio. Questo impone uno scambio informativo tra distributore e produttore molto più intenso di quello che si è avuto finora», afferma Sebastiano Mazzoni Perelli, director a capo della divisione Wealth Management di Prometeia. Se finora gli scambi tra i due soggetti erano in molti casi limitati agli accordi di collocamento, alla modalità di ripartizione delle commissioni e poco altro, ora le nuove regole rendono necessario uno scambio informativo rilevante sia nella fase di avvio della commercializzazione del prodotto, sia e soprattutto in quella di controllo del processo distributivo per seguire come il prodotto viene collocato. «La responsabilità nella definizione e nel controllo della politica distributiva, precedentemente attribuita quasi esclusivamente agli intermediari, viene estesa anche alle sgr, che dovranno inoltre inserire la descrizione del mercato target all’interno del Kiid, il documento informativo obbligatorio destinato ai clienti retail», prosegue Mazzoni Perelli. «I nuovi adempimenti comporteranno inevitabilmente un aumento dei costi in capo a produttori e distributori che dovranno, quindi, mettere in campo più risorse per gestire processi nuovi e più articolati». E, in un contesto caratterizzato da tassi ai minimi e con maggiori obblighi di disclosure dei costi, gli spazi per scaricare questi maggiori oneri sui clienti finali sono decisamente limitati. «La stessa Mifid II, infatti, impone la massima trasparenza sui costi effettivamente sostenuti dall’investitore, che potrà quindi avere una capacità di confronto tra le condizioni applicate a prodotti o servizi finanziari ben maggiore di quanto accade oggi», aggiunge Mazzoni Perelli. «È quindi prevedibile che questi costi andranno a ridurre la marginalità della catena distributiva».
Le conseguenze? «Potrebbe emergere la necessità di razionalizzare la gamma di produttori con i quali si hanno accordi di distribuzione, almeno con riferimento ai segmenti di clientela per i quali un’architettura aperta non è elemento discriminante nella valutazione del servizio», afferma Mazzoni Perelli. Non solo. «La soluzione più vantaggiosa potrebbe anche risultare quella di avere il produttore in casa: renderebbe più efficienti i processi di scambio informativo e aumenterebbe la possibilità di offrire prodotti coerenti con le effettive esigenze della clientela». A tal proposito in questi giorni il mercato segue con attenzione le vicende di Pioneer, l’asset manager della banca guidata dall’ad Jean-Pierre Mustier messo all’asta per far cassa nell’ambito del piano di rafforzamento del patrimonio che sarà presentato agli investitori a Londra il prossimo 13 dicembre.
Su Pioneer si è accesa una vera e propria battaglia, dai 3 miliardi, che secondo i rumors sarebbero stati la richiesta iniziale di Unicredit , nei giorni scorsi, indiscrezioni di stampa hanno indicato che Amundi avrebbe alzato la posta fino a 4,3 miliardi per superare l’offerta della cordata Poste-Anima e Cdp che si starebbe organizzando per mettere insieme 4 miliardi. Amundi è uscita allo scoperto ammettendo il suo interesse per Pioneer anche se non a tutti i costi perché ha smentito che intende mettere sul piatto 4,3 miliardi. In ogni caso l’operatore francese se la deve vedere, oltre che con Poste, anche con Macquarie e Aberdeen, altri due operatori in short list, in base a indiscrezioni non confermate dagli interessati. Ma la scadenza per far pervenire alla banca di Piazza Gae Aulenti le offerte vincolanti è slittata da inizio a metà novembre. Quindi da qui a quella data non sono esclusi ulteriori rilanci. Con innegabili vantaggi per Unicredit perché un incasso maggiore permetterebbe di ridurre l’importo dell’atteso aumento di capitale che voci di mercato fissano attorno ai 13 miliardi di euro. D’altra parte dal suo insediamento lo scorso giugno, Mustier ha già venduto un pacchetto del 30% di Fineco (una tranche del 10% a inizio luglio e un’altra del 20% a inizio ottobre) ed è alle strette finali sulla cessione del 32% della polacca Bank Pekao. Se la vendita del 10% di Fineco era avvenuta a 5,4 euro per azione, e quella del 20% a 4,55 euro per azione, su Pioneer c’è da dire che una valutazione di 4,3 miliardi sarebbe pari a circa l’1,9% delle sue masse globali di 227 miliardi (di cui 145 miliardi riferiti al mercato italiano). Quando nella primavera del 2000 Alessandro Profumo, l’allora amministratore delegato di Unicredit , rilevò la società di gestione Usa Pioneer che deteneva un patrimonio di 60 mila miliardi di vecchie lire (circa 30 miliardi di euro) il prezzo pagato fu 2.680 miliardi di lire (circa 1,3 miliardi di euro). Profumo, che aveva il pallino di rendere Unicredit internazionale, aveva basato in Irlanda il polo delle gestioni di Unicredit . A Dublino aveva sede Europlus, che al momento dell’acquisto di Pioneer, con cui fu integrata, aveva masse per 180 mila miliardi di lire (circa 90 miliardi di euro). Profumo comprò Pioneer a un prezzo pari al 4,4% delle masse. A quei tempi le valutazioni degli asset manager erano più alte perché era da poco scoppiata la bolla dei titoli Internet e il valori di borsa non si erano ancora sgonfiati come avvenne negli anni successivi. C’è da dire però che nei primi anni 2000 per le banche il business del risparmio gestito non era ancora la miniera d’oro di commissioni in cui si è trasformato dopo la crisi del 2007, quando la raccolta del risparmio gestito ha permesso di compensare il calo dell’attività del business tradizionale dei prestiti.

Oggi c’è un altro problema: i tassi ai minimi che rendono più complicato fare rendimenti e quindi estrarre valore dall’asset management. Di qui la scelta di concentrarsi sulla distribuzione finanziaria, più che sulla gestione. Ma proprio l’entrata in vigore della Mifid II potrebbe cambiare lo scenario e rendere poco lungimirante la scelta di tenere lontani gestori e distributori. Non a caso Azimut , gruppo che da sempre è stato pioniere nel settore, ha deciso di rafforzare l’integrazione tra gestione e distribuzione incorporando la rete di Azimut Consulenza Sim (oltre 1.600 consulenti finanziari) in Azimut Capital Management Sgr. «Il processo di riorganizzazione del gruppo, completato il 1° ottobre di quest’anno con la scissione con incorporazione di Azimut Consulenza Sim in Azimut Capital Management Sgr, ci permette non solo di razionalizzare la struttura societaria allineandola ad alcune best practice internazionali ma anche di rafforzare ulteriormente l’integrazione tra produzione e distribuzione, in coerenza con il modello operativo che abbiamo avuto sin dalla quotazione», spiega Paolo Martini, amministratore delegato di Azimut Capital Management Sgr e co-direttore generale di Azimut Holding. Questa operazione «ci consente di ridurre ulteriormente i tempi tra lo sviluppo delle idee e il lancio di nuovi prodotti sul mercato e di avere reale cognizione di cosa c’è dentro i portafogli con evidenti vantaggi in termini di comunicazione su clienti e professionisti. Un approccio che siamo convinti ci darà, in ottica Mifid II, un vantaggio aggiuntivo dal momento che la normativa pone importanti vincoli dal punto della product governance con una serie di adempimenti e di presidi lungo tutta la catena del valore, dalla creazione alla distribuzione del prodotto finanziario. La nostra presenza internazionale e la piattaforma aperta di prodotti e servizi sviluppata in questi anni si integrano perfettamente nel nuovo modello che punta a valorizzare ancor di più il ruolo centrale dei consulenti finanziari», prosegue Martini. Il quale conclude: «Per gli asset manager che si occupano solo della gestione e non hanno rapporti diretti con i clienti sarà infatti più complesso indirizzare l’offerta e lo stesso vale per i distributori che non operano con una fabbrica gestionale integrata. Senza poi pensare al rischio reale di fuga di informazioni relative ai clienti verso società di asset management terze». (riproduzione riservata)
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