Il «soffitto di cristallo» (l’affascinante metafora, con cui si indica la barriera che impedisce alle donne di raggiungere posizioni apicali nel mercato del lavoro o, almeno, la parità retributiva con gli uomini) è ancora duro da scalfire, in Italia, come in Europa: nei 28 Paesi dell’Unione, infatti, il tasso di occupazione nella fascia di età tra 15 e 64 anni registra «un differenziale di genere di circa 10,5 punti percentuali».

E il divario tende ad estendersi pericolosamente nelle fasce di popolazione di età più elevata, riducendo così le aspettative del «sesso debole» sulla maturazione anagrafica e, nel contempo, retributiva, da cui possano scaturire (un domani) effetti migliori sulla pensione che si andrà a percepire. È quanto si legge nell’indagine conoscitiva sull’impatto in termini di genere della normativa previdenziale e sulle disparità esistenti in materia di trattamenti pensionistici tra uomini e donne che è stata condotta nei mesi scorsi dalla commissione lavoro di Montecitorio, e in cui si pone in risalto come, nella nostra Penisola, il tasso di occupazione femminile sia sensibilmente inferiore a quello dei «colleghi»: nel dicembre 2015, la quota delle lavoratrici di età compresa tra 15 e 64 anni era pari al 47,1% a fronte di un dato riferito agli uomini della medesima fascia di età, pari al 65,9%. Lo scarto, pertanto, è vastissimo, raggiungendo quasi i 19 punti percentuali.

Fra gli elementi accertati, grazie alle audizioni di una serie di esperti, in grado di disegnare un panorama sulla previdenza a tutto tondo, fuori e dentro i nostri confini, quello che vede le pensioni di reversibilità (le prestazioni che spettano al coniuge superstite), a livello europeo, essere assurte a «importante strumento di riduzione dei «gap» di genere»: è in virtù di quanto spetta alle vedove di uomini lavoratori, dunque, che la differenza di assegni riesce a essere parzialmente mitigata. Il divario, però, rimane consistente: nella media dei Paesi europei «il differenziale per la pensione mediana è pari al 45%, contro il 40% misurato con riferimento ai valori medi di tutte le forme pensionistiche.

Per valutare il «peso» dell’assegno di chi ha terminato l’attività occorre considerare i metodi di computo che hanno portato alla sua quantificazione. E, hanno potuto osservare i deputati nel documento conclusivo dell’indagine, lo svantaggio per la componente «rosa» è (ancora una volta) palese, perché «i meccanismi di calcolo delle prestazioni previdenziali non sono neutrali dal punto di vista delle disparità di genere»: la correlazione dell’ammontare delle pensioni ai contributi versati nell’intera vita lavorativa, infatti, «tende a dare rilevanza alla presenza, nella carriera, di interruzioni e di periodi, anche ampi, di impiego a tempo parziale». In aggiunta, va ricordato che sistemi che basano l’importo della prestazione sull’ammontare delle ultime retribuzioni percepite, «come quelli utilizzati in Italia nell’ambito del sistema retributivo», sono orientati a «premiare le carriere più dinamiche e, quindi, statisticamente» le performance nelle quali più uomini, che donne, riescono a conquistare una discreta posizione economica su cui basare il proprio avvenire, una volta abbandonato ogni incarico.

Sullo sfondo, poi, c’è un’altra disparità che stavolta vede il genere femminile «in vantaggio»: il primato riguarda la speranza di vita più alta (nel 2015, ha rilevato l’Istat, sebbene in lieve flessione rispetto al dato dell’anno precedente, per gli uomini italiani è stata di 80,1 anni e di 84,7 anni per le connazionali, ndr), ma ciò rischia di tramutarsi in un «boomerang», poiché tali difformità, «sulla base del diritto dell’Unione europea, non si possono tradurre nell’adozione di coefficienti di trasformazione del montante contributivo differenziati tra i due sessi», finendo così per penalizzare la parte «rosa» che, di regola, trascorre una fetta più lunga di esistenza da pensionata. Un destino di inferiorità segnato per «l’altra metà del cielo»? No, si chiude il dossier, se si investirà nell’«innalzamento dei livelli di istruzione», qualificando soprattutto le giovani. E positive conseguenze sulle prestazioni previdenziali potrebbero germogliare, si legge, pure dalle misure messe di recente in campo dal governo «per contrastare questa deriva, attraverso la decontribuzione per le nuove assunzioni a tempo indeterminato» e mediante l’introduzione del nuovo contratto a tutele crescenti.
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