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In questa rubrica ci siamo più volte occupati delle problematiche connesse, nel nostro paese, all’assicurazione dei danni catastrofali. Abbiamo segnalato come da più parti si sia contrari alla scelta dell’assicurazione obbligatoria perché finirebbe per essere considerata una ulteriore e non opportuna tassa sulla casa.

Abbiamo altresì analizzato le proposte (avanzate anche da Ania, l’associazione di categoria delle imprese assicuratrici) per adottare un sistema misto in cui lo stato coprirebbe una parte del danno mentre la parte restante sarebbe sostenuta da polizze private obbligatorie e ciò sull’esempio di alcuni paesi europei e non. Proprio su questo punto alcuni lettori chiedono di conoscere qual è lo stato dell’arte nei principali paesi che si sono occupati del fenomeno. Gli schemi adottati sono i più vari, si va dal sistema obbligatorio applicato in Romania e in Turchia, a quello semi obbligatorio usato in Francia, Spagna, Belgio, California e Nuova Zelanda, a quello volontario (con incentivi) scelto dal Giappone. Il modello che economisti e addetti ai lavori considerano «esemplare» è quello francese che vede la partnership di assicurazioni private con la Caisse Centrale de Réassurance (Ccr) società a capitale pubblico che opera sul mercato come riassicuratore (anche in rami diversi da quelli catastrofali). Il regime è appunto semi obbligatorio e prevede per legge la copertura del rischio da catastrofi quando si sottoscrive una polizza per danni con qualsiasi compagnia privata. Si paga una quota fissa pari al 12% della polizza per danni e la polizza copre l’immobile contro rischi da alluvioni, terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami e anche da «spostamenti di ghiacciai». Il sistema, grazie alla possibilità delle imprese di riassicurarsi con Ccr, ha una capacità praticamente illimitata e i risultati si vedono, tant’è che il 90% degli immobili francesi è assicurato.

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Perché la Disney ha rinunciato a fare un’offerta di acquisto per Twitter dopo che aveva formalmente ingaggiato due banche d’investimento (Jp Morgan e Guggenheim Partners) per valutare l’offerta per il social? Secondo rumors di mercato alcuni tra i più grandi investitori della Disney avrebbero espresso perplessità preventive su un’acquisizione che avrebbe sicuramente superato i 12 miliardi di dollari (il valore attuale di Borsa di Twitter è circa 11,35 miliardi) e ciò anche se il valore di mercato di Disney è circa 12 volte superiore. Ma ci sarebbe un altro motivo che fa riferimento al merito e non alla finanza: Disney (sembra dopo attente e riservate analisi di mercato) sarebbe preoccupata che il bullismo e altre forme di comunicazione «a-social» diffuse su Twitter (come sugli altri social) possano intaccare l’immagine sana e «familiare» della società di Burbank. Un valore che alla Disney, nonostante l’azienda si occupi ormai di tantissime cose e non più solo di produzioni di film di animazione per famiglie, tengono moltissimo a conservare come parte essenziale del loro brand.

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