Pagina a cura di Vincenzo Dragani  

 

Il reato di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio o intermediazione illecita di rifiuti è contestabile sono a chi riveste, anche di fatto, la qualifica di imprenditore o titolare di ente. A chiarirlo è la sentenza 9 luglio 2014 n. 29992 con la quale la Corte di cassazione, chiamata a esprimersi in relazione a una fattispecie di commercio ambulante di rifiuti, ha delimitato i confini della «gestione di rifiuti non autorizzata» prevista e punita dal Codice ambientale.

 

L’autore della gestione illecita di rifiuti. L’interpretazione restrittiva del Giudice di legittimità ruota intorno al corretto significato da dare al pronome utilizzato dal Legislatore per individuare il potenziale soggetto attivo del reato in parola, laddove l’articolo 256, comma 1 del dlgs 152/2006 testualmente punisce «chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216» dello stesso Codice ambientale. Per la Cassazione il termine «chiunque» ivi contenuto deve essere letto non in modo isolato, ma insieme alle disposizioni recate dagli articoli richiamati dalla stessa disposizione, articoli che espressamente individuano in imprese ed enti i soggetti tenuti a procurarsi i necessari titoli abilitativi per poter lecitamente gestire rifiuti (il 208, comma 17-ter sull’autorizzazione per impianti e attività di gestione rifiuti, il 209 commi 1 e 2 sul rinnovo della stessa, il 212, commi 7, 8, 9 ed 11 sull’obbligo di iscrizione all’Albo gestori ambientali, il 214 comma 9, il 215 e il 216, commi 3, sulle procedure semplificate per recupero e smaltimento).

Dal tenore della sentenza si evince dunque come l’illecito previsto dall’articolo 256, comma 1, dlgs 152/2006 sia un «reato proprio» (dunque integrabile solo dai citati soggetti, riconducibili ai titolari di imprese o enti) e non un «reato comune» (commissibile da qualsiasi soggetto).

Questo, ricorda la pronuncia, fermo restando che a identificare come titolare di impresa o ente un soggetto è comunque la funzione in concreto svolta, non essendo necessaria l’esistenza di una formale investitura. Ben può dunque ritenersi tale qualunque soggetto che, in base all’attività svolta, assuma «di fatto» tali qualifiche (come ha già chiarito, ricorda il Giudice, la stessa Corte con precedenti pronunce, tra cui la 38364/2013). In base alla nuova sentenza della Cassazione non appaiono dunque sanzionabili come «gestione di rifiuti non autorizzata» (ex comma 1, articolo 256, dlgs 152/2006) quelle condotte caratterizzate da assoluta occasionalità poste in essere da soggetti non inquadrabili (sia dal punto di vista formale che materiale) come imprese o enti. Così come, al contrario, appaiono sanzionabili per lo stesso illecito le analoghe condotte poste in essere da quei soggetti anche solo «di fatto» riconducibili nelle citate categorie, pur se adottate in modo secondario o solo consequenziale all’attività principale.

 

Il commercio ambulante di rifiuti. Effettuata la ricognizione generale sulla portata del reato di «gestione di rifiuti non autorizzata», la Corte di cassazione ha di conseguenza (e sulla scia della pregressa e consolidata giurisprudenza di legittimità) inquadrato nello stesso l’attività di commercio in forma ambulante di rifiuti (nella fattispecie, rottami ferrosi) realizzata senza alcun titolo abilitativo.

Il Giudice ha infatti ricordato come in materia lo stesso «Codice ambientale» preveda sì delle deroghe agli obblighi autorizzatori ambientali (iscrizione all’Albo gestori, tenuta dei registri di carico/scarico, formulario di trasporto, denuncia annuale rifiuti), ma (secondo il tenore dell’articolo 266, comma 5, dlgs 152/2006) solo per le «attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate dai soggetti abilitati allo svolgimento delle attività medesime in forma ambulante, limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio».

Indefettibili ai fini della validità della deroga, sottolinea la Corte, sono quindi sia la sussistenza di un valido titolo per lo svolgimento della attività d’impresa (da rintracciarsi nella più generale e vigente disciplina sul commercio) sia la riconducibilità merceologica dei residui raccolti e trasportati all’attività autorizzata.

Sulla più generale portata della citata deroga il Giudice di legittimità ha invece ricordato la precedente e illuminate sentenza 19111/2013, con la quale la stessa Corte ha fissato precisi paletti al regime di eccezione, confinandolo alla sola raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi da parte di «commercianti al dettaglio». E in assenza dei citati elementi, non operando la deroga ex articolo 266, comma 5 descritta, l’attività condotta senza il supporto dei titoli abilitativi ambientali previsti dallo stesso dlgs 152/2006 integra dunque il reato di «gestione di rifiuti non autorizzata» ex articolo 256, comma 1, dlgs 152/2006, essendo posta in essere da soggetto titolare di impresa (seppur «di fatto»).

 

Il contesto sanzionatorio del «Codice ambientale». La ricognizione effettuata dalla Cassazione sul campo di applicazione del reato di «gestione di rifiuti non autorizzata» appare ad avviso dello scrivente utile anche per chiarire le conseguenza legate ad altre azioni aventi ad oggetto rifiuti residui. È il caso della combustione di «rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali» (definiti ex articolo 184, comma 2, lettera e) del dlgs 152/2006 come rifiuti «urbani»): ai sensi del combinato disposto degli articoli 255 e 256-bis dello stesso Codice ambientale, se effettuata da soggetto privato (dunque, non inquadrabile in attività d’impresa) e avente ad oggetto residui «abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata», essa combustione (definita come «illecita») è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria.

Ma nel caso il caso il fuoco sia appiccato dallo stesso soggetto ad analoghi residui che tuttavia non versino nelle suddette condizioni di abbandono o stoccaggio illecito non apparrebbe rintracciabile nello stesso dlgs 152/2006 altra fattispecie punitiva cui ricondurre la condotta, essendo stato chiarito che il diverso illecito di «gestione di rifiuti non autorizzata» ex articolo 256, comma 1 del dlgs 152/2006 (che tra l’altro prevede sanzioni ben più gravi) è riservato alle sole condotte poste in essere da titolari, anche «di fatto», di enti o imprese.