Vittoria Puledda

Milano È uno dei settori più ricchi, più promettenti e, dopo anni di stasi, anche a maggior tasso di crescita. Il risparmio gestito, o meglio quello più ampio del wealth management (incluse anche le propaggini del versante assicurativo, su cui ad esempio sta puntando molto Intesa Sanpaolo) sta vivendo una nuova giovinezza. Un’occhiata ai numeri è illuminante: a fine aprile il patrimonio censito da Assogestioni (un aggregato più piccolo rispetto al wealth management) era pari a 1.405 miliardi di euro, tre volte la capitalizzazione di Piazza Affari. Abbastanza per spiegare l’entusiasmo delle società e la rinnovata felicità degli azionisti (quasi sempre banche). Ma anche la corsa a riorganizzarsi, a cercare nuovi equilibri e, perché no, quando conviene a far cassa. Prendiamo Fineco. La banca diretta multicanale, in collocamento da lunedì, garantirà ad Unicredit un incasso tra gli 800 e i 636 milioni (senza contare la green shoe) nell’ipotesi di prezzo massimo e minimo. Il che significa, per le casse della banca di Piazza Cordusio, una discreta plusvalenza. In Borsa arriverà una società con un patrimonio gestito di 45,6 miliardi, oltre 900 mila clienti, una raccolta netta che nel primo trimestre 2014 ha segnato un più 33% e un utile netto a 37 milioni, +36,6% rispetto all’anno prima, mentre l’intero 2013 si era fermato a quota 85 milioni, in deciso calo rispetto al 2012 (anche a causa dell’impatto negativo dell’addizionale

Ires). Quando c’è abbondanza comunque tutto diventa più facile, anche risolvere partite mai del tutto chiuse. Ad esempio Banca Esperia, una coabitazione paritetica tra Mediobanca e Mediolanum che nonostante le dichiarazioni ufficiali da tempo non funziona. Ora potrebbe essere arrivato il momento di sciogliere i legami, proprio grazie al fatto che la banca va meglio: «Siamo a buon punto del nostro piano industriale orientato alla crescita, per sviluppare una realtà che ha grandi potenzialità», spiega Andrea Cingoli, amministratore delegato di Banca Esperia. A fine maggio le masse erano pari a 15,5 miliardi (stabili), i costi in calo e i ricavi da commissioni di gestione in crescita di circa il 20%, mentre l’utile netto stimato era pari a 7,5 milioni (rispetto agli 8 dell’intero 2013, che aveva scontato accantonamenti straordinari per il piano di ristrutturazione, come del resto era accaduto anche all’esercizio precedente). Resta comunque il fatto che i grandi patrimoni non rendono mai molto a chi li amministra: per Esperia le gestioni patrimoniali e l’advisory alla clientela privata garantisce grosso modo intorno ai 70 punti base. «E’ da più di un anno che diciamo che Banca Esperia per noi non è più strategica, anche se questo non significa che siamo alla ricerca affannosa di un compratore – spiega Massimo Doris, a capo del gruppo Mediolanum -. Il fatto è che un tempo noi non eravamo in grado di acquisire i grandi clienti, ora invece abbiamo la nostra divisione private. Insomma, non abbiamo bisogno di far cassa ma se arriva una buona offerta la valutiamo ». Dunque, in modo meno diplomatico, la quota è in vendita. E l’acquirente naturale è uno solo: il socio al 50%. Mediobanca probabilmente sarebbe anche disponibile a farsi avanti; il nodo, come al solito, è il prezzo: «A 180 milioni non saremmo venditori», chiarisce Doris. Nonostante le intenzioni, non è detto che il matrimonio verrà sciolto a breve. E poi c’è tutto il resto dello shopping, fatto spesso di dossier che girano tra banche d’affari, di intenzioni e di auspici più che di realtà. Periodicamente vengono date sul mercato le reti di Bim, quelle del Credit Suisse in Italia (ma forse non la parte di relationship manager) così come Finanza & Futuro o Euromobiliare (anche se il Credem ogni volta smentisce). Il fatto è che un po’ tutte le divisioni private banking dei grandi gruppi bancari sono in fase di ripensamento, anche se con strade diverse. Di sicuro è acquirente Banca Generali. La rete diretta da Piermario Motta sta guardando da qualche tempo un’acquisizione da 3-5 miliardi di masse gestite: molti si aspettano un annuncio entro l’estate anche se nel frattempo la società cresce facendo reclutamento di promotori (settore guardato con molto interesse dai bancari in uscita da un settore che al contrario ha più esuberi che prospettive): da inizio anno sono già entrate 50 nuove figure. Una realtà peraltro che, secondo i dati Assoreti, a fine marzo scorso ha il primato di masse gestite per promotore (20,4 milioni) contro i 17,3 di Banca Fideuram, i 16,4 di Azimut e i 15,3 di Finecobank. Compratore, ma con cautela, anche Pietro Giuliani di Azimut. «Noi siamo interessatissimi a comprare, ma a prezzi giusti non a valutazioni esuberanti», taglia corto. Altri ancora stanno seguendo la strada della riorganizzazione interna, come nel caso di Intesa. Nel suo Piano industriale la banca ha individuato la componente di ricavi da wealth management come sempre più importante ed ha avviato una struttura progettuale che sovrintende alla “combinazione industriale” tra le sue anime: Banca Fideuram e Intesa private banking. Capoprogetto è stato nominato Matteo Colafrancesco (ad di Fideuram) e, in prospettiva, l’idea è di arrivare all’integrazione anche societaria tra le due gambe del wealth management (insieme, contano 165 miliardi di masse gestite, 5700 private banker e sono ai primissimi posti della classifica europea di settore). Ma si sa che le unioni fanno la forza però anche i mal di pancia: e Intesa non fa eccezione, a sentire qualche mugugno interno. Soprattutto da parte della componente del Private banking, che teme di essere fagocitata da Fideuram (che, sempre a dar credito a voci di corridoio, ha una redditività media del gestito più alta). Resta un fatto: semplificare ha senso – e fa risparmiare – ma far convivere modelli di business e clientela di fascia diversa può non essere semplice; la sfida è non distruggere quello che si ha già in casa. Qui sopra, Marco Carreri amm. delegato di Anima, ultima società del risparmio gestito a quotarsi