di Alessandro Lazzari

A pochi giorni dall’inizio della sesta edizione della Giornata Nazionale della Previdenza e del Lavoro (Napoli 10-12 maggio), abbiamo voluto approfondire il tema della cultura della previdenza e del welfare con Alessandro Bugli, Avvocato presso lo Studio Legale Associato Taurini & Hazan, con particolare riguardo ai settori dell’assicurazione, della previdenza complementare e della sanità integrativa e autore di diverse pubblicazioni in materia di assicurazioni vita e danni, previdenza complementare e sanità integrativa.

Domanda: il Presidente dell’INPS Boeri ha spiegato che la generazione dei nati negli anni 80 corre il rischio concreto di andare in pensione a 75 anni, in che modo gli Intermediari Assicurativi posso incidere sulla cultura previdenziale e del welfare in generale, nei confronti di queste persone?

Risposta: essendo nato negli anni ‘80 me ne dispiaccio, ma la previsione non mi convince in toto. Ciò posto, è anni che ci ripetiamo quanto sia importante il ruolo che gli intermediari assicurativi andranno a svolgere nel modello di welfare mix pubblico/privato (oramai accolto da tutte le nazioni socialmente e economicamente evolute). Le linee guida contenute nella nuova direttiva IDD ci raccontano di un intermediario sempre più “consulente” del cliente e sempre meno “venditore”. Siamo ancora molto lontani dal risultato (per formazione, specializzazione e competenza) e non è detto nemmeno che questa nuova veste dell’intermediario possa piacere alle stesse compagnie di assicurazione. Bisogna, poi, aggiungere che questa segmentazione per albi, registri, elenchi, … non aiuta al fine: disporre di un consulente competente ad ampio spettro capace di analizzare le diverse variabili e esigenze del cliente e che abbia la capacità di legare le stesse con il complesso mondo del sistema di sicurezza sociale a matrice pubblica (INPS, INAIL, fonti di assistenza riferibili ai poteri locali,…). Dando risposta puntuale al suo quesito, è certo che l’introduzione del metodo di calcolo contributivo e il legame necessario tra età di pensionamento e speranza di vita potrebbe incidere sulla misura e sull’età di pensionamento, ma la previdenza complementare ha una funzione che è ben superiore e ulteriore rispetto alla mera esigenza di recuperare il gap di tasso di sostituzione. Dobbiamo passare per un cambio culturale che porti alla consapevolezza dell’importanza del risparmio (per coloro che sono in condizione di accantonare risorse) e che, in ogni caso, ci spinga a conoscere i diversi strumenti di welfare esistenti e ci aiuti a comprendere dove sono i nostri “punti” di scopertura e di debolezza, sapendo prevenire, invece che curare. In questo, l’intermediario assicurativo – sia esso agente, broker, intermediario bancario – assume un ruolo fondamentale di consulenza e assistenza dei singoli.  Pensare, invece, di far leva sul messaggio “catastrofale”, a mio avviso, non paga: lo sconforto e il senso di disaffezione verso gli istituti del welfare state non può che condurre anche ad un allontanamento da quelli integrativi privati. Spesso nei nostri incontri pubblici si sente ripetere dai giovani e giovanissimi, se non posso fidarmi dello Stato, perché dovrei fidarmi di un privato? Questo è l’esatto risultato che si ottiene veicolando messaggi di allarme, peraltro non sempre rispondenti al vero e, comunque, non validi per ogni singolo interessato.

Domanda: il Ministro dell’Economia Padoan ha espresso margini di trattativa sull’argomento pensioni sia in termini di strumenti che di incentivi, ritiene che questa possa essere la strada giusta per favorire la cultura della previdenza nei giovani lavoratori, domani futuri pensionati e anche negli addetti ai lavori?

Risposta: ogni buona idea e soluzione è sempre ben accetta. Non vi è dubbio che l’auspicata flessibilità, così come alcuni correttivi in materia di welfare complementare (previdenziale, assistenziale e sanitario), potrebbero dare utile risposta ad alcune delle criticità sin qui riscontrate o messe in luce in chiave prospettica. Ciò posto, temo – come già detto – che il problema della cultura previdenziale venga ben prima e non si risolva con un tratto di penna del legislatore. Ci sono almeno due azioni diverse da coordinare per una buona diffusione della cultura previdenziale: formare correttamente coloro che sono – a diverso titolo – chiamati a diffondere la cultura previdenziale (insegnanti, intermediari, datori di lavoro, …) e, poi, far sì che in ogni scuola di primo e secondo grado, università comprese, con modi e toni diversi, si parli di previdenza, assistenza, sanità (e, ancor prima, di lavoro). Le fonti di informazione sono intasate, soprattutto in questi giorni, di notizie su pensioni, sanità e welfare, ma ciò non vuol dire che nel mare di contenuti accessibili, tutto sia rispondente al vero e assimilabile a “cultura” in tema di welfare. In senso positivo, si può comunque dire che alcune iniziative lodevoli sono state portate avanti negli ultimi anni e sono servite ad accendere l’attenzione della popolazione al tema e a fornire risposte chiare e dettagliate ai diversi quesiti posti. Pur nell’evidente conflitto di interessi, mi preme ricordare al riguardo, come tra qualche giorno prenderà avvio la nuova edizione napoletana della Giornata Nazionale della Previdenza.

Domanda: non passa giorno senza che tv, giornali, web, ed altri canali di informazione riportino notizie relative alla situazione pensionistica futura e al sistema welfare Italiano; quindi possiamo tranquillamente affermare che anche i più distratti ricevono quotidianamente informazioni di base sull’argomento. Alla luce di questa situazione come giudica il fatto che la previdenza complementare stenti ancora a decollare, così come altre forme specifiche di risparmio con fini assistenziali?

Risposta: Il fatto che si parli di pensioni pubbliche non è necessariamente la risposta alla carenza di conoscenze in materia di previdenza complementare e altre forme di welfare integrativo. Certo, poter comprendere la necessità di far ricorso a forme di risparmio per il proprio futuro è già un qualcosa, ma ciò non basta: bisogna anche conoscere il funzionamento dei fondi pensione, le prestazioni ottenibili e la loro convenienza dal punto di vista fiscale. Lo stesso vale, in termini non dissimili per quanto attiene alla sanità integrativa: anche a voler concedere che chiunque sappia di che cosa ha diritto dallo SSN, non è detto che gli stessi soggetti sappiano che cos’è una forma sanitaria integrativa, come funziona e quali benefici si possono ottenere aderendovi.

Sull’asserito mancato decollo della previdenza complementare mi trovo solo parzialmente d’accordo. Il decreto 252/2005 è entrato in vigore solo nel 2007. Da allora il settore si è molto sviluppato: certo, c’è ancora molto da fare. In parte di coloro che potrebbero aderire ai fondi pensione e ancora non lo fanno si registra spesso una certa resistenza culturale e un pregiudizio verso l’idea di costruirsi una pensione privata. Non manca, poi, chi, ogni tanto, sulle principali testate e reti televisive finisce per dire cose non rispondenti al vero, aumentando la diffidenza di parte degli interessati verso tali forme (es. tenere il TFR presso il proprio datore è stato ed è più conveniente che destinarlo ad una forma pensionistica complementare). La cultura, ancora una volta, sembra essere l’unica ricetta per sviluppare il settore. Anche l’alibi della incapacità di poter accumulare risparmio (salvo per determinati casi, effettivamente tali) è spesso un alibi: la contribuzione ai fondi pensione, al pari dell’adesione, è libera e volontaria e si possono sospendere i propri versamenti in qualsiasi momento. Si badi, poi, che – per i dipendenti – il primo fattore di contribuzione, il TFR, se si fa eccezione della non memorabile esperienza della QUIR, è una posta che il lavoratore riceve solo alla cessazione del rapporto di lavoro e, quindi, destinarlo ai fondi pensione non comporta alcuna riduzione del proprio tenore di vita attuale.

Domanda: avvocato, Lei è molto attivo anche nell’ambito della formazione professionale dedicata agli Intermediari in materia di previdenza, assicurazioni e sanità; in questo modo avrà sicuramente la possibilità di raccogliere gli “umori” degli addetti ai lavori, ritiene che gli operatori del settore, comprese le compagnie di assicurazione possano fare di più per stimolare una maggiore cultura previdenziale?

Risposta: le rispondo richiamando alcune ultime ricerche svolte in materia di intermediazione. In Italia abbiamo più di 218 mila intermediari persone fisiche iscritte al RUI (un numero quasi pari a quello degli avvocati): 1 ogni 100 lavoratori e ogni 19 imprese. Vero è che molti di questi fanno riferimento ad un’unica struttura societaria e che la maggior parte (circa 183 mila) sono collaboratori di intermediari principali e, come tali, iscritti in sez. E del RUI, ma il dato non è comunque trascurabile. L’ampia diffusione delle reti di intermediazione ha, certamente, fatto sì che i PIP diventassero la prima forma di previdenza complementare per numero di iscritti, ma – nel complesso – la sensazione è che ci sia ancora tanto da fare. Molti lamentano, poi, la poca redditività legata alla raccolta delle adesioni, ma non si può trascurare che la soluzione di previdenza complementare può consentire di instaurare con il cliente un rapporto di medio lungo termine e una certa fidelizzazione dello stesso. In più, solo una ridotta parte degli intermediari esistenti presta la propria attività e consulenza nel settore del welfare integrativo, mentre buona parte delle reti agenziali non riesce ancora ad abbandonare il legame storico con la RC auto, settore sempre meno redditizio e per cui non si vedono pro futuri grandi rilanci per gli intermediari. Va detto, in ogni caso, che la colpa di una diffusione ridotta degli strumenti di previdenza complementare rispetto agli altri Stati OCSE (l’Italia è quasi in coda di classifica) non è certamente colpa degli intermediari di assicurazione; tanti e vari sono i fattori di freno, legati anche e soprattutto al tessuto produttivo, costellato (fortunatamente) di PMI, realtà produttive di straordinaria e centrale importanza, ma dove la diffusione della cultura previdenziale è assai complessa e dove il datore confida sulla posta di TFR e non ha troppo interesse a che quest’ultimo sia destinato dai suoi lavoratori ai fondi pensione.

Domanda: molto sta cambiando anche nel Sistema Sanitario Nazionale e sempre più spesso il cittadino è chiamato a contribuire con risorse proprie “out of pocket” per far fronte a spese mediche di vario genere, sia diagnostiche che curative; per fronteggiare questa situazione quale ritiene possa essere il cambio di marcia da fare per fronteggiare un welfare sanitario molto diverso rispetto a quello degli anni 80?

Risposta: Il fatto che il cittadino sia chiamato, in determinati momenti e realtà, a ricorrere alla sanità privata è una certezza (la spesa sanitaria stimata da Itinerari Previdenziali per l’anno 2014 è stata pari a circa 30 miliardi di euro. In rapporto ai 111 miliardi che lo Stato spende per sanità, la cifra è notevole e nient’affatto trascurabile). Ciò detto, la domanda che tutti dovremmo porci è: “Perché affrontiamo tutta questa spesa in modalità out of pocket e non ci garantiamo rivolgendoci a intermediari qualificati di spesa?”. La spesa intermediata da forme sanitarie integrative in Italia è di poco superiore a 4 miliardi di euro, tutto il resto decidiamo di pagarlo di tasca propria al tempo della prestazione, con danni notevoli e scossoni per l’economia domestica. Una buona cultura in materia di welfare impone di conoscere per tempo i nostri rischi e bisogni e imparare a garantirci per l’ipotesi in cui ci trovassimo a dover ricorrere a prestazioni sanitarie a pagamento (il discorso non è diverso per i ticket per l’accesso e l’ottenimento delle prestazioni pubbliche). In questo senso, un buon intermediario assicurativo può aiutare il proprio cliente a comprendere cosa sia ottenibile (a buone condizioni di qualità e tempo) dallo SSN e, allo stesso tempo, può aiutarlo a reperire soluzioni di garanzia integrative utili a eliminare o, comunque, a ridurre le conseguenze patrimoniali del ricorso a prestazioni sanitarie a pagamento. Lo stesso vale per la sempre maggiore incidenza dei costi legati alla non autosufficienza propria o dei propri casi.