Andrea Rustichelli

Roma D oveva essere sulla carta una grande opportunità per rilanciare le professioni (eccetto notai e avvocati, che sono esclusi), su cui pesa una pesantissima crisi che falcia i fatturati e dilata i tempi di riscossione delle parcelle. Ma ben presto il provvedimento si è trasformato in una generalizzata fonte di perplessità, specie tra i commercialisti. Le “società tra professionisti”, le cosiddette Stp il cui regolamento è appena entrato in vigore, lasciano aperte diverse questioni. A livello fiscale, per esempio, non è specificato se vada applicato il principio di cassa, come per i lavoratori autonomi, oppure il principio di competenza, quello delle imprese. Ma un’altra questione cruciale resta scoperta, toccando le pensioni dei professionisti. Un aspetto su cui è particolarmente coinvolta la Cassa dei commercialisti. In sintesi ecco il rebus: come si calcolano i contributi per il professionista che aderisce ad una società, la quale di fatto è il soggetto delle prestazioni professionali? E come è da gestire il “contributo integrativo” (il 4% della parcella, nel caso dei commercialisti) che viene versato dal cliente? «Su questo la legge non dice nulla, col rischio incombente di caos generalizzato tra i contribuenti», spiega Renzo Guffanti, presidente della Cassa dei commercialisti. «In attesa che arrivino i necessari chiarimenti, abbiamo dovuto giocare di anticipo e ai nostri iscritti stiamo inviando in questi giorni le indicazioni che

riteniamo opportune». E dopo il danno potrebbe esserci anche la beffa, almeno questo è il timore principale. «In questo vuoto normativo – nota Guffanti – potrebbe succedere che l’Inps vada a bussare alla porta dei professionisti coinvolti nelle Stp, i quali per la menzionata mancanza di regole non abbiano versato i contributi comunque dovuti: la legge, infatti, prevede che a ogni prestazione professionale si applichi necessariamente una copertura previdenziale». Ma dopo le ripetute sollecitazioni, sembra che qualche chiarimento possa arrivare davvero a breve. Intanto, come affermato dal presidente, la stessa Cassa dei commercialisti sta diramando in questi giorni delle disposizioni ai propri iscritti: «Nell’attesa che arrivino le necessarie indicazioni ci siamo basati sull’unico testo certo che abbiamo, la legge 21 del 1986, quella di riferimento per la nostra Cassa: questa dice che il contributo integrativo è riscosso dal “soggetto” iscritto all’albo, che lo riversa all’ente di categoria». Tradotto alla luce dell’obbligo di iscrizione all’albo da parte delle stesse Stp, saranno queste a esigere dal cliente la porzione contributiva in questione. Ma in alcuni casi si pone comunque un problema ulteriore: «L’integrativo – osserva Guffanti – riversato dalle Stp ai propri enti previdenziali necessita di regole supplementari: per esempio in Casse come la nostra, dove è consentito ai singoli iscritti, per migliorare la propria pensione, di accreditare sul proprio conto una parte di quel contributo». E poi ci sono le sorti del contributo soggettivo, cioè la quota previdenziale più sostanziosa, quella che il professionista versa di sua tasca calcolandola sul proprio reddito (l’aliquota è variabile e per i commercialisti: un minimo dell’11%, mentre il massimo è stato abolito). Secondo alcune anticipazioni, sembra che l’Agenzia delle entrate, entro pochi giorni, stabilirà con una circolare come deve essere trattato l’utile prodotto dalle Stp: in particolare, dovrebbe prevalere la prospettiva della cassa, piuttosto che quella della competenza. Nel grafico a fianco, la crescita dei soci delle casse previdenziali private divisi fra attivi e pensionati attivi