di Andrea Di Biase

Il blitz con cui l’Autorità Antitrust è intervenuta sul dossier Unipol-FonSai, congelando fino al termine dell’istruttoria non solo l’operazione di concentrazione ma soprattutto «ogni attività e/o delibera prodromiche e funzionali alla stessa», non sembra aver preso alla sprovvista il vertice di Mediobanca. Nonostante la decisione dell’authority presieduta da Giovanni Pitruzzella, che ha esteso l’istruttoria anche alla banca d’affari e alle Generali, sia stata letta dai principali osservatori come un siluro destinato ad affondare non solo l’operazione di integrazione tra la compagnia bolognese e Fondiaria-Sai, ma anche a scalfire il legame tra Mediobanca e la compagnia triestina, in Piazzetta Cuccia non sembrano particolarmente preoccupati da quello che potrebbe essere la decisione finale dell’Antitrust. Anzi, il fatto che il garante per la concorrenza, che fin dai tempi dell’istruttoria sulla fusione tra Sai e Fondiaria del 2002 ha basato ogni decisione in tema di concentrazione nel sistema bancario e assicurativo sulla tesi del controllo di fatto di Mediobanca sulle Generali, abbia acceso nuovamente un faro sui legami tra Piazzetta Cuccia e il Leone di Trieste viene considerata un’opportunità piuttosto che un rischio. Chi ha avuto modo di incontrare l’ad di Mediobanca, Alberto Nagel, all’indomani della decisione dell’Antitrust, lo ha trovato non certo allarmato per lo stop imposto all’operazione di integrazione tra Unipol e FonSai (di cui Mediobanca è il principale creditore), né particolarmente turbato di fronte alla possibilità che l’authority, al termine dell’istruttoria, possa imporre a Piazzetta Cuccia di ridurre in parte il proprio peso azionario nelle Generali, attualmente pari al 13,24% del capitale. In Mediobanca sono infatti fiduciosi, così come lo è l’ad di Unipol, Carlo Cimbri, che dopo avere illustrato agli uffici dell’Antitrust non solo le misure necessarie per dare attuazione al provvedimento sospensione ma anche gli impegni per ottenere il via libera alla concentrazione, il cantiere per il salvataggio di Premafin e la messa in sicurezza di FonSai possa essere riaperto in tempi brevi. Secondo quanto risulta a Milano Finanza, già lunedì 30 aprile (per quel giorno è anche in agenda l’assemblea di Unipol) o al più tardi mercoledì 2 maggio, la compagnia bolognese e Premafin dovrebbero presentare all’Antitrust i propri impegni per gestire il periodo che andrà fino alla delibera finale dell’authority, ma in quell’occasione dovrebbero venire esposti anche alcuni degli impegni che le parti si obbligheranno a rispettare per ottenere l’ok alla fusione. Nelle prossime settimane, invece, potrebbero emergere importanti novità non solo sui futuri rapporti tra Mediobanca e la compagnia che dovrebbe nascere dall’integrazione tra Unipol e Fondiaria-Sai, ma anche sul ruolo che la banca di P i a z z e t t a Cuccia avrà in futuro nella compagnia triestina. Come ha sottolineato l’Antitrust nel suo provvedimento, in virtù del ruolo di capofila del consorzio di garanzia che M e d i o b a n c a avrà negli aumenti di capitale di Unipol e Fondiaria-Sai e della trasformazione del debito di Premafin in un prestito convertendo, Piazzetta Cuccia potrebbe trovarsi al termine dell’operazione ad essere azionista sia della compagnia che nascerà dalla fusione sia di Unipol Gruppo Finanziario (la holding quotata che ne avrà il controllo). Una prospettiva che, secondo l’Antitrust, avrebbe effetti distorsivi sulla concorrenza nel mercato delle polizze, alla luce del ruolo di principale creditore del nuovo gruppo che Mediobanca continuerebbe ad avere anche dopo la fusione, ma soprattutto per il fatto che Piazzetta Cuccia è il principale azionista delle Generali e che i legami incrociati con quest’ultima configurerebbero un controllo di fatto della prima sulla seconda. Di fronte ai rilievi dell’Antitrust, Mediobanca, che non è intenzionata a rimanere azionista di Uni-FonSai, sarebbe dunque pronta a impegnarsi per alienare (con tempi e modalità da definire) le partecipazioni di cui potrebbe entrare in possesso al termine della fusione. Un impegno simile potrebbe essere preso anche sul fronte dei crediti vantati nei confronti del nuovo gruppo. Non è dunque escluso che Piazzetta Cuccia possa impegnarsi a ridurre parte dell’esposizione (subordinata e ordinaria) nei confronti della filiera che da Finsoe (la holding delle coop) arriverà, passando attraverso Ugf, fino alla nuova compagnia. Ma gli impegni più rilevanti potrebbero riguardare proprio il ruolo di Mediobanca nel capitale delle Generali, nonostante la banca milanese continui a negare la fondatezza della teorema del controllo di fatto. Di fronte a questa tesi, sulla quale il garante per la concorrenza (sia durante la gestione di Giuseppe Tesauro, sia durante quella di Antonio Catricalà) ha basato quasi tutte le decisioni relative a operazioni di concentrazione nel sistema finanziario (Sai-Fondiaria, Generali-Toro, Banca Intesa- Sanpaolo Imi, Unicredit-Capitalia e infine l’ingresso di Unicredit in FonSai), sia Mediobanca sia la compagnia triestina si sono sempre opposte in tutte le sedi competenti (Tar del Lazio e Consiglio di Stato), non ottenendo tuttavia alcun provvedimento loro favorevole. Ciononostante la banca d’affari continua a non ritenere valida la tesi dell’Antitrust, come dimostra anche la recente decisione di Nagel e del direttore generale di Piazzetta Cuccia, Saverio Vinci, di dimettersi dal cda delle Generali. Il regolamento interpretativo dell’articolo 36 del decreto salva-Italia, quello sul divieto ai doppi incarichi, prevede infatti che gli amministratori che siedono anche nei cda di società sottoposte a controllo di fatto non siano tenuti a dimettersi. Per questo motivo se Nagel e Vinci fossero rimasti nel cda del Leone, per Mediobanca sarebbe stato come ammettere la fondatezza della posizione dell’Antitrust. Ma pur continuando a negare la tesi del controllo di fatto su Trieste, in Piazzetta Cuccia non sembrano avere una posizione oltranzista sul mantenimento dell’attuale livello di partecipazione. Da anni, ormai, il management di Mediobanca si è impegnato a liberare capitale allocato nel portafoglio partecipazioni per destinarlo all’attività bancaria. Negli ultimi cinque esercizi (dal 2005 al 2011), sotto la gestione di Nagel e Renato Pagliaro, l’istituto di Piazzetta Cuccia ha progressivamente dismesso partecipazioni per un importo complessivo di 3,3 miliardi, realizzando plusvalenze per circa 700 milioni. In particolare sono state cedute gran parte delle quote azionarie, messe insieme negli anni dal fondatore Enrico Cuccia e poi gestite dal suo delfino Vincenzo Maranghi, che presentavano incroci con gli azionisti (o comunque ex azionisti) della banca. Mediobanca è così uscita completamente dal capitale di Fiat, Ciments Francais, Commerzbank, Fondiaria-Sai, Mediolanum, Pininfarina, Intesa Sanpaolo (ex Comit), Ferrari e Finmeccanica. Allo stesso tempo i ricavi della divisione corporate & investment banking (Cib) sono progressivamente e costantemente cresciuti. Grazie alla decisione di diversificare le basi di clientela, puntando sull’estero e rivolgendosi sempre di più a gruppi non presenti nell’azionariato della banca, negli ultimi cinque anni gli impieghi della divisione Cib sono cresciuti del 66%, passando da 16,6 a 27,6 miliardi. Nello stesso periodo i proventi dell’attività di corporate & investment banking sono cresciuti del 63%, passando da 560 a 913 milioni, mentre il risultato operativo è migliorato del 53%, attestandosi alla fine dell’esercizio 2011 a 572 milioni contro i 375 milioni del 2005. Sulla crescita dei ricavi ha pesato non poco l’attivit&agrave
; svolta all’estero, la cui incidenza sul totale dei proventi è passata dal 2% del 2005 al 31% del 2011. E le partecipazioni? La presenza nel bilancio dell’istituto dei cosiddetti principal investing (il 14,36% di Rcs, l’11,62% di Telco e il 13,24 delle Generali) fanno ancora di Mediobanca quel centauro (metà banca d’affari, metà holding di partecipazioni) descritto molti anni fa da Enrico Cuccia. Tuttavia, nonostante l’approccio fin qui seguito sia stato quello di supportare la crescita delle aziende partecipate, la presenza di Mediobanca nella compagnia triestina assorbe parecchio capitale che se liberato potrebbe invece essere allocato all’attività bancaria. Un tema, quest’ultimo, che diventerà di stretta attualità già l’anno prossimo, quando entreranno in vigore (seppur gradualmente in vista della piena applicazione nel 2019) le regole di Basilea 3. Il tema di una discesa di Mediobanca attorno alla soglia del 10% delle Generali, ma in prospettiva anche sotto il 10%, potrebbe dunque diventare a breve di stretta attualità e non è escluso che già nella negoziazione con l’Antitrust sul dossier Unipol-FonSai, la banca di Piazzetta Cuccia possa decidere di giocare d’anticipo, impegnandosi a ridurre progressivamente (con modalità e tempi non penalizzanti per il bilancio) l’attuale livello partecipativo. Questo non significa che Mediobanca si appresta ad abdicare allo storico ruolo di primo azionista delle Generali, considerato che prima degli anni 2000 la banca d’affari, pur con una partecipazione inferiore al 10%, ha svolto comunque un ruolo di stabilizzatore nell’azionariato delle Generali, partecipando alla governance della compagnia attraverso la nomina del vicepresidente (che per tradizione era il presidente di Mediobanca) e di un sindaco (ruolo che per alcuni anni è stato ricoperto proprio da Nagel). E anche se la norma sui doppi incarichi non consentirà più questo schema (Nagel e Vinci saranno rimpiazzati dal direttore centrale Clemente Rebecchini e da un professionista indipendente), l’anno prossimo in occasione del rinnovo del cda del Leone toccherà comunque a Mediobanca presentare la lista di maggioranza, ma di sicuro dopo un confronto con i grandi azionisti privati (De Agostini, Caltagirone, Del Vecchio, Effeti-Ferak), il cui peso aggregato potrebbe essere già superiore a quello di Piazzetta Cuccia. In questa nuova configurazione l’attuale group ceo, Giovanni Perissinotto, potrà avere dunque quella maggiore autonomia che da tempo auspicava. (riproduzione riservata)

Il commissario sarebbe la strada peggiore

Dei 2 miliardi di euro di perdite denunciate in due anni dal gruppo Premafin-FonSai, delle centinaia di milioni di euro in operazioni con parti correlate e delle decine di milioni distribuiti quali compensi ai membri della famiglia Ligresti, molto è emerso in queste settimane, peraltro con omertoso ritardo rispetto agli eventi. A questo punto la fusione-salvataggio con Unipol è probabilmente la soluzione più sensata sotto il profilo industriale; altre proposte sul tavolo, al momento sembrano velleitarie. Persino concepite con lo scopo di stendere un velo pietoso su una storia che ha poco da invidiare ai casi Ferruzzi e Parmalat. Di fronte a cifre così eclatanti, la magistratura ha acceso i suoi severi riflettori sulla famiglia Ligresti e su quanti in questi anni l’hanno fiancheggiata. Costoro dovranno dimostrare la liceità dei tanti denari usciti dalle casse sociali per rendere più confortevoli le loro vite private. Resta il fatto che oggi un intervento troppo aggressivo del pm sulle società, farebbe probabilmente danni ancor più gravi: di fronte a un estenuante commissariamento giudiziale dagli esiti incerti (raramente dalla procedura sono venuti benefici autentici ai creditori e a quanti vantano titoli di rivendica), la soluzione industriale proposta da Unipol è senz’altro da preferire. In gioco ci sono i denari di quasi 8 milioni di assicurati e i risparmi dei quasi 100 mila investitori che, avendo puntato in tempo non sospetto sui titoli coinvolti nell’operazione, rischierebbero ben più di quanto hanno già perduto per effetto della crisi globale e di una dissennata gestione alla quale è giunto il momento di dire basta. L’irrituale intervento dell’Antitrust, corretto nella sostanza ma un po’ rozzo nelle modalità, potrebbe paradossalmente agevolare il percorso di un’operazione che è giusto indagare fino in fondo, purché ciò non divenga scudo di intenti poco nobili finalizzati a minare ulteriormente un settore industriale già sofferente. E guai se l’irruzione del Garante venisse strumentalizzata per dilatare ulteriormente una trattativa – quella tra la famiglia Ligresti e le banche creditrici – che da tempo ha superato il tollerabile. Il prezzo sta diventando davvero troppo alto. (riproduzione riservata)