di Roberta Castellarin e Paola Valentini

La guerra ai paradisi fiscali si fa più acuta nei periodi in cui gli Stati sono alle prese con la necessità di ridurre il loro debito pubblico e tagliare la spesa. D’altra parte la posta in gioco è alta visto che i capitali ancora nascosti nei paradisi fiscali ammontano a 21 mila miliardi di dollari, secondo un’analisi di James Henry, ex capo economista di McKinsey.

Una cifra enorme pari al valore delle economia Usa e del Giappone messe insieme. «Le tasse che gli Stati perdono sono enormi e tali da fare la differenza per i bilanci di molti Paesi», afferma Henry. Dal report di Henry emerge anche che a fine 2010 le maggiori 50 private bank al mondo gestivano a livello mondiale oltre 12,1 mila miliardi di dollari dei propri clienti privati. E in testa ci sono le banche svizzere come Ubs e Credit Suisse. Così non è un caso che gli Usa abbiano appena firmato con la Svizzera l’accordo Facta (Foreign account tax compliance act): in questo modo i conti dei cittadini Usa presso le banche elvetiche saranno dichiarati al Fisco Usa che punta così a tassare anche questi capitali. Un elemento che dimostra che l’offensiva contro i centri off shore è guidata dagli Stati Uniti alle prese con un fiscal cliff che continua a pesare sulle potenzialità di crescita economica del Paese.

 

Ma non sono soltanto i privati nel mirino.

In particolare i governi che devono confrontarsi con la crescente insoddisfazione della classe media vorrebbero intervenire sulla tassazione delle grandi multinazionali, che grazie ad arbitraggi fiscali riescono a pagare aliquote molto basse. Nel mirino ci sono colossi come Apple, Google o Amazon che operano in tutto il mondo. Negli Stati Uniti il New York Times ha rivelato che una speciale Commissione d’inchiesta del Senato americano sta completando l’inchiesta sull’elusione fiscale delle aziende hi-tech e dovrebbe presto presentare raccomandazioni per combatterla. Dopo un anno di indagini il Senate Permanent Subcommittee on Investigation vuole adesso inserire le sue proposte nel prossimo negoziato sulla riforma del sistema fiscale per le aziende, parte degli sforzi per ridurre il debito del Paese. Le pratiche contabili di Apple sono diventate un caso emblematico: in passato ha fatto risultare fino al 70% dei profitti come originati all’estero, per sfruttare imposte più favorevoli. Nel 2011 il gigante di Cupertino a fronte di profitti globali di oltre 34 miliardi di dollari ha pagato 2 miliardi e 400 milioni di tasse, quindi un’aliquota del 9,8%. Apple ha sempre respinto le accuse di elusione affermando di rispettare stringenti standard etici. Nel mirino nella Commissione sono finite anche Microsoft, Hewlett-Packard e Google, oltre ad aziende di biotecnologie. Le aziende hi-tech spesso riescono a far leva sulla facilità nel trasferire offshore proprietà intellettuali e entrate per abbattere il loro carico fiscale.

E infatti le 71 aziende tecnologiche quotate sull’indice Standard & Poor pagano mediamente le tasse a un’aliquota un terzo più bassa di quella delle industrie tradizionali.

 

Il tema, però, riguarda tutte le grandi economie.

Secondo uno studio Ocse presentato al G20 che si è tenuto a Mosca la scorsa settimana le multinazionali sfruttando cavilli normativi, pur mantenendosi nella piena legalità, riescono a spuntare livelli di tassazione di appena il 5%, laddove piccole e medie imprese devono sobbarcarsi fino al 30%. Si legge nel documento dell’Ocse: «Molte delle regole in vigore mirate a proteggere le multinazionali dal pagare due volte le tasse, troppo spesso permettono loro di non pagarle affatto». Questo di fatto crea un vantaggio competitivo per i big player rispetto alle altre società che operano nel mercato.

Non solo. Le pratiche cui ricorrono le multinazionali per ridurre la tassazione sono diventate più aggressive nell’ultimo decennio. Basta creare numerose filiali off shore in qualche paradiso fiscale dove finiscono opportunamente gli utili, mentre alle sedi nei Paesi con alta tassazione restano immancabilmente spese e perdite. La ricerca Ocse mostra che con questo trucco alcuni piccoli Paesi ricevono una quota di investimenti esteri diretti (Fdi) del tutto sproporzionata rispetto ai Paesi maggiori. Nel 2010, per esempio, le Barbados, Bermuda e le Isole Vergini hanno ricevuto più Fdi (5,1% del totale mondiale) della Germania (4,7%) o del Giappone (3,7%) e durante lo stesso anno i tre paradisi caraibici hanno fatto più investimenti (4,54%) nel mondo della Germania (4,28%).

 

In base allo studio dell’Ocse, le Isole Vergini risultano essere il secondo investitore mondiale (14%) in Cina, dopo Hong Kong (45%) e nettamente davanti agli Usa (4%), mentre le Mauritius sono al top come investitore in India (24%) e Cipro non ha rivali negli investimenti in Russia (28%). Ci sono poi i casi dei Paesi europei, fiscalmente vantaggiosi, dove si aprono veicoli societari ad hoc, con pochissimi o senza dipendenti, il cui unico ruolo è quello di fungere da holding. Per esempio, lo stock degli investimenti in Olanda nel 2011 totalizzava 3.207 miliardi di dollari e di questi ben 2.625 miliardi facevano capo a veicoli societari speciali, mentre gli investimenti in uscita dal Lussemburgo sono stati pari a 2.129 miliardi, di cui 1.987 con i veicoli speciali.

«Si tratta di strategie, tecnicamente legali, che tuttavia erodono la base di tassazione in molti paesi e minano la stabilità del sistema fiscale internazionale», ha commentato il direttore generale dell’Ocse, Angel Gurria. «Nel momento in cui governi e cittadini stanno sforzandosi per far quadrare il bilancio, è importante che tutti i contribuenti, sia i privati cittadini sia le società, paghino il giusto ammontare di tasse e abbiano fiducia in un sistema internazionale trasparente». L’Ocse si ripromette nei prossimi mesi di approfondire gli studi in materia per quantificare l’importo delle tasse perdute in questo modo dai governi e per suggerire soluzioni che rafforzino l’integrità del sistema globale di tassazione. In effetti, come risulta da un’analisi dell’Ocse sui principali Paesi, c’è un’elevata discrepanza tra le aliquote delle imposte e il gettito ricevuto dall’erario (tabella in pagina). Per esempio, in Italia l’aliquota fiscale media per le società nel 2012 sfiora il 30%, mentre i ricavi fiscali in percentuale sul totale della tassazione sono pari all’8%.

 

Intanto Gran Bretagna, Francia e Germania hanno stretto un accordo per rendere più difficile questo slalom fiscale. Proprio in occasione del G20 i Governi di questi tre Paesi hanno lanciato un’iniziativa congiunta per tentare di limitare il fenomeno dell’elusione fiscale da parte delle società multinazionali. Oltre alla questione delle grandi aziende globali anche nei confronti dei Paperoni si stanno stringendo le maglie. E i paradisi fiscali devono attrezzarsi. Per esempio nel momento in cui il G20 e tutte le grandi organizzazioni spingono per lo scambio automatico d’informazioni, le banche svizzere hanno pensato di presentare una proposta alternativa: il piano Rubik. Gli Stati esteri incassano miliardi velocemente, senza spese e con precisione svizzera e in cambio mantengono il segreto bancario. All’inizio questa strada sembrava in discesa, ma poi solo la Gran Bretagna l’ha attuata. Mentre in Germania è stata bocciata dalla camera rappresentativa dei Lander tedeschi. Il modello dell’accordo svizzero-tedesco era speculare a quello su cui le diplomazie elvetiche e italiane stanno discutendo da mesi. Da un lato le aliquote per i patrimoni detenuti in Svizzera, tra il 19% e il 34%, con punte del 41% in casi speciali. Per quel che riguarda l’imposta sui redditi da capitale tra il 27% e il 35%. Dall’altro i 2 miliardi di franchi pretesi dalla Germania a titolo cautelativo, in capo alle autorità fiscali elvetiche. Senza dimenticare l’amnistia degli interessati e il fermo divieto, da parte svizzera, com’è ovvio, ad acquistare o impiegare elenchi di dati trafugati (come la lista Falciani). Il fallimento del fronte tedesco ha imposto una pausa di riflessione anche agli altri Paesi europei e la Francia ha più volte fatto sapere che non le interessa un accordo di questo tipo.

 

Se il piano Rubik dovesse essere respinto dall’Unione europea, per la Svizzera diventerebbe molto difficile resistere alle pressioni per una maggiore trasparenza, poiché non avrebbe più nulla da offrire. Secondo molti esperti ci si dirigerebbe verso lo scambio automatico di informazioni e per una parte del settore finanziario svizzero sarebbe catastrofico, poiché perderebbe gran parte della sua attrattiva. Ma la lotta ai paradisi fiscali si sposta ora in Asia, perché negli ultimi anni ai super ricchi del mondo occidentale si sono aggiunti anche i nuovi Paperoni del Far East. E se per ora lo stock di ricchezza è ancora concentrato negli Stati Uniti e in Europa, la raccolta di nuovi flussi invece arriva proprio dall’Asia e dagli altri Paesi emergenti. Non è un caso se una delle piazze che cresce di più nel private banking sia l’Asia. E così i porti asiatici che, in parte, beneficiano dei flussi di chi non si fida più della Svizzera, dall’altra possono contare sulla crescente ricchezza degli asiatici.

 

Per esempio, Singapore ha spiccato il volo come piazza finanziaria qualche anno fa, quando si sono inaspriti i controlli sulla Svizzera. Dalla sua ha una regolamentazione molto efficiente, è vicina ai mercati ad alta crescita e presenta una tassazione molto agevolata sui grandi patrimoni. Il Paese è nella lista bianca dell’Ocse e sta stringendo accordi per lo scambio di informazioni fiscali con vari Paesi tra cui l’Italia che ha ratificato l’intesa proprio a fine 2012. L’isola asiatica comunque offre, oltre a una fiscalità agevolata, anche la tutela del segreto bancario. Certo è che chi sceglie di trasferire lì il patrimonio va incontro a difficoltà pratiche, perché per i movimenti allo sportello è necessario recarsi nella città asiatica, che non è proprio dietro l’angolo come la Svizzera. La crescita delle Piazze asiatiche è emersa anche dalla recente indagine condotta dall’Economist sull’economia offshore, dove è evidente uno spostamento degli asset dai mercati più vicini all’Europa verso Oriente. (riproduzione riservata)