di Paola Valentini

Il 2013 sarà l’anno in cui i lavoratori capiranno che il fondo pensione non può essere più considerato un optional? Il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, aveva promesso che per Natale l’istituto avrebbe rivelato agli iscritti l’importo dell’assegno pubblico previsto al momento del pensionamento.

La famosa busta arancione, una comunicazione che in Svezia è già una realtà da tempo. Ma al momento la simulazione della pensione è rimasta nel cassetto, forse anche perché, con la campagna elettorale in corso, il momento non è propizio. Eppure i cittadini hanno il diritto di sapere quello che lo Stato non ha detto loro per anni.

La stima della previdenza pubblica sarebbe utile perché oggi i lavoratori italiani non conoscono esattamente quanto potranno attendersi come pensione, a differenza dei pensionati di ieri che invece vedevano calcolato tutto il loro assegno in base alle retribuzioni degli ultimi anni di vita lavorativa. Questo per effetto delle ultime riforme, culminata con quella firmata da Elsa Fornero che è entrata a pieno regime di fatto da quest’anno e che ha esteso il metodo contributivo per il calcolo della pensione a tutti i lavoratori. Oggi quindi si otterrà in misura proporzionale a quanto versato. Non solo. Nel metodo contributivo i versamenti effettuati vengono rivalutati in base alla media quinquennale del pil.

Che da alcuni anni non cresce più penalizzando il montante finale. E così una bassa o nulla crescita economica rischia di produrre assegni poveri ai futuri pensionati di domani. Senza dimenticare la precarietà nel mondo del lavoro, un fenomeno sempre più dilagante, che provoca buchi contributivi difficili da colmare. Il montante accumulato poi dovrà essere convertito in rendita in base ai coefficienti di trasformazione della pensione che sono rapportati alla speranza di vita. La riforma Dini del 1995 aveva introdotto il contributivo per i lavoratori di prima occupazione al primo gennaio 1996 e quindi aveva previsto questi coefficienti per le età dai 57 a 65 anni (che rappresentavano le età di pensionamento di allora) con l’impegno di riaggiornarli a scadenza decennale. Dopo ripetuti rinvii l’aggiornamento era stato operato per effetto del Protocollo del Welfare del 2007 e i nuovi coefficienti sono entrati in vigore dal 1° gennaio 2010. Si era poi stabilito che gli aggiornamenti successivi in base alle nuove speranze di vita avessero luogo con cadenza triennale. Ma nel frattempo la manovra Fornero ha allungato l’età di pensionamento fino a 70 anni e quindi i nuovi coefficienti che sono entrati in vigore il primo gennaio di quest’anno, validi per un triennio, coprono per la prima volta dai 65 anni fino ai 70 anni. D’ora in avanti l’adeguamento sarà triennale fino al 2018 rendendo poi il processo biennale dal 2019 per uniformare gli aggiornamenti previsti per le età di pensionamento che sono anch’essi agganciati alla speranza di vita.

Il problema è che proprio l’allungamento della vita attesa determina una riduzione dell’assegno, almeno fino all’età di 65 anni.

Per un pensionato di questa età il coefficiente in vigore fino a fine 2012 era pari a 5,620%, dal 1° gennaio 2013 è salito del 5,435% che equivale a una riduzione dell’assegno pensionistico calcolato con il metodo contributivo del 3,3%. Fino a 65 anni i nuovi coefficienti sono più bassi in media del 3% rispetto a quelli del 2010 (vedere tabella in pagina). Non solo. Va detto che questi nuovi coefficienti sono stati calcolati dai tecnici del ministero del Lavoro e della Ragioneria dello Stato assumendo un pil dell’1,5%, basandosi sul fatto che tra il 1990 e il 2007 la variazione è stata dell’1,47% e inglobando completamente la recessione in cui è caduta l’Italia dal 2008 e le basse prospettive di crescita economica previste per i prossimi anni. Se quindi i coefficienti fossero calcolati in base alla reale situazione economica italiana l’assegno atteso sarebbe più basso.

Una soluzione c’è. Lavorare più a lungo. La riforma Fornero ha infatti introdotto l’età flessibile di pensionamento da 62 a 70 anni. Chi decide di rinviare la pensione dopo i 65 anni avrà un tasso di sostituzione (ovvero la percentuale dell’ultimo stipendio che si avrà come assegno previdenziale) più alto, come emerge dai coefficienti che passano dal 5,62% per chi esce dal mercato del lavoro a 66 anni al 6,54% di chi resta fino a 70 anni, o meglio 70 anni e tre mesi. Infatti quest’anno è scattato anche il primo incremento dei requisiti anagrafici e contributivi necessari per ottenere la pensione di vecchiaia e anticipata (66 anni e tre mesi per i lavoratori dipendenti e autonomi e le lavoratrici del pubblico impiego e 62 e tre mesi per le lavoratrici del settore privato). Il prossimo ricalcolo scatterà nel 2016, poi dal 2019, l’anno dell’allineamento a 67 anni per la pensione di vecchiaia per tutti, i successivi aggiornamenti ci saranno ogni due anni e coincideranno con gli adeguamenti previsti che agganciano i coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita.

Proprio per capire l’effetto sull’assegno finale di un differimento dell’età della pensione Progetica, società indipendente di consulenza in educazione e pianificazione finanziaria, ha aggiunto il caso dei 60enni, simulando per ogni profilo gli effetti di posticipare il momento del buen retiro fino ai 70 anni. «Come si può verificare dalla simulazione vi è naturalmente un aumento dell’assegno pensionistico in termini percentuali», spiega Andrea Carbone di Progetica, «e nell’ultima colonna è riportato anche l’aumento assoluto annuo per chi guadagnasse 36 mila euro lordi annui prima della pensione».

Un dipendente oggi 30enne, che si prevede andrà in pensione a 68 anni e nove mesi, riceverà il 53,4% dell’ultimo stipendio come prima pensione, se posticipa di un anno riceverà il 55,2%, se invece si ritirerà a 70 anni arriverà al 56,6% con una differenza di 3,2 punti percentuali in valore assoluto, pari a 1.167 euro all’anno in più. Per un 40enne il differimento a 70 anni dall’età minima prevista (67 anni) comporterà un aumento del tasso di sostituzione dal 53,2 al 59,9%, ovvero di 2.441 euro in base alla simulazione condotta. Un 60enne, che parte da un tasso di sostituzione ben più elevato (74,2% a 67 anni) per effetto del maggior peso del sistema retributivo nel calcolo della sua pensione, la scelta di posticipare di 3 anni il momento di ritiro dal lavoro porterebbe in tasca oltre 2.640 euro all’anno in più arrivando a un tasso di sostituzione dell’81,6%.

 

Dinamiche simili per i lavoratori autonomi che però versano meno contributi e quindi hanno tassi di sostituzione più bassi e minori incrementi dell’assegno atteso nel caso decidano di proseguire il lavoro dopo l’età minima prevista per la pensione. Che cosa fare? «In un’ottica di pianificazione previdenziale, il differimento può essere certamente considerato un aiuto per aumentare l’importo stimato dell’assegno pensionistico. Il notevole peso di altre variabili, soprattutto quando mancano molti anni al termine dell’attività lavorativa – ovvero la crescita della carriera, i buchi contributivi, l’andamento del pil – sembrerebbe tuttavia rendere il differimento un’opzione da considerare quando si è vicini al momento della pensione», aggiunge Carbone. Proprio tutte queste incognite alle quali oggi è legata la pensione pubblica rilanciano il ruolo della previdenza complementare come strumento per mettere in sicurezza il tenore di vita dopo la pensione senza essere a tutti i costi stakanovisti. Da un’analisi di Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) nel 2030 un lavoratore andrà in pensione con un tasso di sostituzione del 64,5% e se avesse sottoscritto un fondo pensione andrebbe con una pensione più alta dell’8,3%. Il tutto senza essere costretto a lavorare fino a 70 o più anni. «Oltretutto l’allungamento della vita lavorativa eleva il rischio di discontinuità lavorativa e della salute e dell’autosufficienza», spiega Luigi Ballanti della Mefop. E qui entrano in gioco altre funzioni che nel nuovo welfare i fondi pensione possono essere chiamati a svolgere concentrando in un unico strumento le coperture per perdita di autosufficienza e quelle sanitarie. Come risulta dalle stime di Progetica un 30enne dipendente ha la possibilità di ottenere una scorta di 1.000 euro in più al mese versando da subito 396 euro al mese in una linea garantita e 230 euro in una bilanciata. È importante iniziare il prima possibile perché andando avanti negli anni i versamenti richiesti per avere lo stesso risultato ovviamente aumentano. «Stiamo andando incontro a un futuro caratterizzato da bassa crescita economica e attività lavorativa più flessibile e di più lunga durata. A pagare le conseguenze della crisi in corso sono soprattutto le giovani generazioni che devono farsi carico di responsabilità non loro, dal momento che le future prestazioni pensionistiche di base non permetteranno di mantenere invariato il proprio tenore di vita. Quindi è imprescindibile accantonare per tempo le risorse necessarie», avverte Antonio Finocchiaro, presidente della Covip.

Certo finché non si dirà ai lavoratori che cosa li aspetta, i fondi pensione, a cui oggi aderisce meno di un quarto della platea potenzialmente interessata, non decolleranno. «Senza adeguata informazione sui tassi di sostituzione che saranno offerti dal primo pilastro, difficilmente i lavoratori acquisiranno consapevolezza circa la necessità di aderire ai fondi pensione. In altri Paesi è prevista la busta arancione, anche nel nostro Paese questa iniziativa è stata annunciata», conclude Ballanti. (riproduzione riservata)